Un test per Macron, di Giorgio Armillei

Il dibattito
è intenso, specie tra i “landiniani” frequentatori di questo blog. Macron è il
pilastro del rinascimento europeo o solo un temporaneo alleato della vecchia sinistra
nella battaglia contro la presunta destra camuffata dei populisti? È un
avversario del sovranismo o solo un cultore del sovranismo di nuova
generazione? È un liberale autentico o un dirigista francese con abiti
liberali? Aspira legittimamente al riconoscimento delle opinioni pubbliche
europeiste e antipopuliste o è solo un capo di un partito? Insomma, Macron piò
essere il leader europeo del riformismo liberale europeo alternativo al
nazional populismo?
Facciamo una
specie di gioco. Proviamo a sottoporre velocemente discorsi e scelte politiche
di Macron a 6 test. La politica è il vertice gerarchico della società o solo una
funzione del sistema sociale? Lo chiameremo il test di Luhmann. La politica in
forma di stato (sovranità) è un segmento della politica o la racchiude? Lo
chiameremo il test di Einaudi. L’Unione europea
deve essere uno stato o una forma politica sui generis? Lo chiameremo il test
di Monnet-De Gasperi. La politica regola l’economia o la governa? Lo chiameremo
il test degli ordoliberali. La politica garantisce il lavoro o lo tutela? Lo
chiameremo il test di Tocqueville. La religione ha un ruolo pubblico anche in
una società ad alta differenziazione o deve essere solo un fatto privato? Lo
chiameremo il test di Ratzinger-Habermas.
Con il primo
test ci chiediamo se Macron fa sua una idea del ruolo della politica come parte
del sistema sociale e non come suo vertice ricapitolativo. Se cioè in Macron c’è
una presa d’atto delle caratteristiche strutturali delle società ad alta
differenziazione. Quelle nelle quali non c’è un centro dal quale governarle.
Insomma, direbbe Luhmann: “si può tollerare l’idea di una società senza centro
e proprio in ciò vedere le condizioni per una politica capace di democrazia?”. Detto
in altri termini: nella visione politica di Macron la società è poliarchica?
Il pensiero
politico francese mainstream non è certo di matrice pluralista. Eppure, Macron
inietta pluralismo nel modello francese. “Non penso che la politica debba
promettere la felicità. La politica non può tutto, non ha i mezzi per regolare
tutto, reggere tutto, migliorare tutto”. Un esempio? Il mercato del lavoro. Troppa
presenza della politica e troppa presenza della legge dello stato, dice Macron.
C’è bisogno di sviluppare la contrattazione sindacale e la contrattazione
aziendale. Le organizzazioni sociali degli interessi se la vedano tra loro per
produrre quote di bene comune. Quindi non meno regole ma meno politica e meno
stato. Ancora più espliciti i suoi due consiglieri Ismael Emelien e David Amiel
nel libro "Le progres ne tombe pas du ciel": il cambiamento non è solo una questione politica che riguarda il governo e la
sua maggioranza. Riguarda sindacati, imprese, associazioni e così via. Test
superato. Diciamo con un 8.
Con il
secondo test ci chiediamo se per Macron la politica è tutta dentro lo stato
sovrano e dentro le proiezioni esterne dello stato sovrano. Quello stato
sovrano “nemico numero uno della civiltà umana” diceva Einaudi, signore della
legge entro i suoi confini, qualcosa di anacronistico e falso già nella prima
metà del secolo scorso.
Qui la
cesura di Macron con l’ètatisme francese sembra più forte del suo ancora timido
pluralismo. “Chi può pretendere di essere sovrano da solo [torneremo su questo da solo] di fronte ai giganti del
digitale?” si chiede nella sua lettera ai cittadini europei. Tutte le sfide che
abbiamo davanti a noi, dalle migrazioni al terrorismo, dall’ambiente alla
rivoluzione digitale, non hanno speranza di essere efficacemente risolte dentro
la sovranità statale. Anzi, il sovranismo “ha acceso bracieri dove l’Europa
avrebbe potuto perire” dice nel suo discorso alla Sorbona. Test superato? Direi
di si, il sovranismo statalista è messo all’angolo. Pensando anche che la
dichiarazione di Meseberg conferma la rinuncia al sovranismo statalista a
vantaggio dello sviluppo di un’idea sovranazionale di Unione europea. Diciamo
un 9 pieno.
Cosa è e
cosa deve essere l’Unione europea? Un superstato che assorbe e trasferisce a
livello meso brani di sovranità nazionale? Poco più di un ordine interstatale
che somma le sovranità nazionali mantenendole separate? Un terzo genere che
crea un ordine politico né statale né intergovernativo, costituito da una
pluralità di istituzioni distinte che condividono poteri comuni senza un
territorio unico di riferimento? “L'Europa non potrà farsi in una sola volta,
né sarà costruita tutta insieme; essa sorgerà da realizzazioni concrete che
creino anzitutto una solidarietà di fatto”, disse solennemente Schuman il 9 maggio
1950.
Qui Macron
oscilla. Per un verso appare come un criptofederalista. Il suo obiettivo è
costruire una sovranità europea, cioè qualcosa che somiglia molto a uno stato
federale europeo. Nello stesso tempo però fa propria l’idea di un’Unione che
“progredisce talvolta a ritmi diversi”, il che significa accettare una
pluralità non statualistica di poteri ma solo in vista di una successiva e
superiore unità. Se con la dichiarazione di Meseberg fa propria ancora un’idea
schumaniana dell’Unione, alla Sorbona propone sei chiavi per la sovranità
europea. Il suo obiettivo in questo caso, dice Sergio Fabbrini, è costruire una
capacità istituzionale dell’Unione “che deve dar vita a una sovranità europea
con caratteristiche statali e con cui sostituire in futuro quelle nazionali”. Insomma,
test superato ma non possiamo andare oltre un 6.
Ed eccoci al
rapporto tra politica ed economia. La lunga fase di crescita economica e di
sviluppo dell’Unione europea si è svolta sotto l’ombrello ordoliberale: la
politica ha il compito di regolare l’economia lasciandola però libera di
muoversi secondo le sue dinamiche interne. Si tratta dunque di governare per il
mercato e non di governare a causa del mercato. L’ordine economico di mercato
non è affatto naturale ma la costruzione sociale che lo regola e lo incorpora
serve solo a farlo funzionare rimediando alle sue intrinseche lacune. Dal che,
come direbbe Franco Debenedetti, esercitarsi in una politica industriale
dirigista non è altro che una “insana idea”.
Qui il
macronismo traballa. L’étatisme, l’idea dei campioni nazionali trasformati ovviamente
in campioni europei, l’idea che i capitali privati debbano essere diretti dal
policy maker pubblico capace di vedere più lontano dei primi, tutte queste idee
prendono il largo o diventano egemoni. La recente dichiarazione congiunta dei
ministri francese e tedesco per una politica industriale adeguata alle sfide
del XXI secolo ne è una prova. Così come la rivolta contro le politiche
antitrust della commissaria Vestager sul caso Alstom-Siemens. Anche se occorre
intendersi sul concetto di “mercato rilevante”, qui l’autonomia tecnica delle
autorità indipendenti dovrebbe giungere a riflessioni meno antistoriche.
L’Antitrust europeo sembra infatti più a suo agio con i servizi che con la
manifattura. In ogni caso si sostiene che la politica industriale, certo non
sempre e non in tutti i settori, debba governare la dinamica di mercato nel
generare impresa, fatturato, occupazione e crescita. C’è bisogno di una
“autentica politica industriale europea” in grado di saperne più del mercato
fino al punto di dover disporre di nuovi poteri in sede di Consiglio dei
ministri dell’Unione per rovesciare le decisioni dell’Antitrust. Qui il
macronismo è più vicino a Mariana Mazzucato e al suo stato imprenditore che non
ai padri liberali dell’Unione europea. Test non superato: siamo al 4.
Ma la realtà
è complessa, come si dice spesso per sfuggire ai giudizi netti. Non sempre però
si tratta di uno stratagemma. La mancanza di un sistema ideologico forte sii
riflette spesso nella composizione di mélange programmatici. Se la politica
industriale è un’idea insana, possiamo forse pensare che almeno una politica
del lavoro che “accorda ad ogni uomo il diritto generale, assoluto,
irresistibile al lavoro” sia qualcosa che riconcilia con l’idea di una
giustizia sociale che non si può lasciare in mano al mercato. Tutt’altro, ci
dice Tocqueville nel suo famoso discorso sul diritto al lavoro. Un diritto al
lavoro così concepito significa infatti inevitabilmente giungere all’idea che
“lo Stato debba essere il precettore di ogni uomo, il suo pedagogo, il quale
deve mettersi senza posa al suo fianco per guidarlo, garantirlo, mantenerlo,
trattenerlo”.
Ebbene in
questo caso Macron è in linea con la tradizione liberale. A parte il “se vuoi
lavorare basta che attraversi la strada, ci sono bar e ristoranti che cercano
personale” che ancora manda fuori di testa i populisti di mezza Europa, ci sono
intenzioni di policy e politiche legislative che vanno in una direzione
toquevilliana. Non si può garantire la sicurezza del posto di lavoro in un
mercato che attraversa continue trasformazioni tecnologiche. Non si può
garantire che ciascun posto di lavoro resti produttivo una volta per tutte. E
così via. Fino all’ordonnance Macron con
la quale si esce anche in Francia dal dualismo del mercato del lavoro: il
datore di lavoro non deve più temere il costo eccessivo dell’estinzione del
rapporto di lavoro. Insomma, qui abbiamo un 10 pieno.
Terminiamo
con una questione di grande rilievo in un momento nel quale la politica
dell’identità acquista un peso decisivo nel ristruttura la gerarchia delle
fratture politiche in tutti i sistemi politici delle democrazie avanzate. Qual
è il posto della religione e del cristianesimo nello spazio pubblico? Laicità e
libertà religiosa sono la stessa cosa? O meglio due posizioni di un un'unica
dimensione del rapporto tra politica e religione? Qui possiamo prendere a
riferimento il dialogo Habermas Ratzinger del 19 gennaio 2004. Rappresentazioni
scientifiche del mondo che abbiano riflessi nelle questioni etiche rilevanti
nella sfera pubblica non hanno alcuna prevalenza rispetto a quelle religiose
concorrenti, dice Habermas. La scienza come tale non è in grado di generare una
coscienza etica rinnovata, dice Ratzinger. Un punto comune è acquisito: in una
società post secolare l’apprendimento reciproco tra ragione e fede nello spazio
pubblico è l’esito pratico reso necessario dal riconoscimento dei limiti di ciasuna
parte.
Anche in
questo caso il macronismo cammina su sentieri comuni al liberalismo della
società post secolare. Dice Macron ai Vescovi francesi nel famoso discorso al Collège
des Bernardins: “io sono garante della libertà di credere e di non credere, ma
non sono né l’inventore né il promotore di una religione di Stato che
sostituisca alla trascendenza divina un credo repubblicano. Chiudere
volontariamente gli occhi sulla dimensione spirituale che i cattolici investono
nella loro vita morale, intellettuale, famigliare, professionale, sociale,
significherebbe condannarmi a non avere se non una vista parziale della
Francia; sarebbe misconoscere il Paese, la sua storia, i suoi cittadini”.
La presa di
distanza da un’idea roussoviana di religione civile è netta. Non altrettanto
netta la convinzione circa la radice ebraico cristiana di una sana religione
civile concepita innanzi tutto come limite alle tentazioni egemoniche delle
altre sfere sociali. Ma in questo caso il test è superato: 8.
Conclusioni:
Macron ne esce con un bel 7 e mezzo. Non male in tempi di sovranismo e di nazional
populismo, a destra come a sinistra. Tanto che prendere per buona la frattura
destra sinistra come frattura che ordina la competizione politica in Europa è
ormai un errore. Come anche Brexit dimostra. Cavarsela con un 7 e mezzo - quando
AKK apre, con tutta probabilità a scopo solo tattico, al sovranismo
intergovernativo, quando la sinistra in Italia, in Francia e nello stesso UK
scivola su posizioni populiste (come dimenticare il no di Zingaretti al CETA o
l’imbarazzante balletto euroscettico di Corbyn), quando la destra liberale
francese va in minoranza surclassata dall’inseguimento del populismo lepenista
intrapreso da Wauquiez, quando Sanchez sceglie di guardare verso Podemos - fa
di Macron il leader riformista liberale europeo. Nei fatti. Anche per i
nostalgici di Blair e Clinton.
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