Staccare la spina

La confusione francamente insostenibile intorno alla cancellazione dell’IMU – ultimo atto dell’instabilità di un sistema di finanza decentrata che non ha eguali nelle democrazie avanzate, come dice Stefano Piperno nel suo ultimo libro - rappresenta forse il punto di non ritorno nella perdita di credibilità riformista del governo Letta. Il problema non sta nelle coperture di bilancio: il problema è un governo segnato dalla strategia continuamente transattiva del suo leader. Impegnato a disinnescare il potenziale di ricatto degli alfaniani, ancora qualche giorno fa evocato dal loro leader; quotidianamente smentito nei suoi annunci riformatori (pensiamo a Cottarelli stoppato dai ministeri di spesa); messo in mora dalla Commissione sulle presunte medaglie per le politiche di bilancio (nessuno può negare che Rehn sia stato assai poco tenero nell’assessment della proposta di budget), Letta sopravvive senza governare. C’è da rimpiangere il primo Monti, quello che tra riforma delle pensioni e ripristino dell’IMU (anche se dentro un mezzo pasticcio neocentralista) aveva almeno portato a casa in due mesi uno dei pochi pacchetti di riforme strutturali degli ultimi dieci anni. Dove dunque aggrapparsi? Il governo Letta (Napolitano) nasce per il convergere di due processi costituzionali di diverso livello. Da un lato, cosa che i costituzionalisti più aperti e meno formalisti avevano segnalato da tempo, l’esponenziale allargamento dello spazio di manovra del Presidente della Repubblica, non certo oltre la costituzione ma talmente ipertrofico da rendere in modo plastico la natura tutt’altro che neutra o arbitrale delle sue funzioni. Dall’altro, la doppia sconfitta elettorale della maggioranza in carica prima del governo Monti, quella naufragata e arresasi alla fine del 2011, e dell’opposizione in carica prima del governo Monti, quella naufragata e arresasi dopo le elezioni di febbraio. Nei sistemi parlamentari solidi in questi casi il leader del partito che ha la maggioranza dei seggi conduce una trattativa per giungere a un governo di grande coalizione. Per poi rimettere la parola agli elettori. Nel nostro assetto costituzionale, sgretolato dopo l’89 ma non ancora rimpiazzato da qualcosa di sistematico, parlamentarismo assoluto e poteri presidenziali elastici e tutt’altro che neutrali si incontrano, invece, in una sorta di monarchia costituzionale secolarizzata, nella quale Presidente e Parlamento negoziano il governo possibile sulla base dei  numeri parlamentari e di quelle che loro ritengono le priorità per il paese. Peccato che le formule costituzionali non siano sovrastrutture: una forma di governo così disarticolata produce esecutivi che non ce la fanno, se non sotto la minaccia di vincoli esterni. E prima o poi si deve tornare a votare. L’inefficienza dell’azione di governo non è solo un problema politico, diventa immediatamente un costo finanziario per i contribuenti, diretto o indiretto. Come decidersi sul prima o poi? Da elettori e da contribuenti lo si fa innanzi tutto sui contenuti delle policy. E qui sono dolori per Letta e i suoi. Cominciamo dall’IMU. Nel suo rapporto preparatorio dell’estate, il Ministero dell’economia e delle finanze diceva con chiarezza che l’esenzione totale dall’IMU per l’abitazione principale avrebbe avuto un effetto regressivo: dare di più a chi ha già di più. Non solo: la compensazione per la perdita di gettito dei Comuni, se non agganciata a bilanci comunali già votati, ha la forte probabilità di innescare comportamenti opportunistici dei Comuni, indotti in modo non del tutto irrazionale sulla base delle compatibilità del sistema ad aumentare l’IMU in previsione dei maggiori trasferimenti a compensazione della sua soppressione. E per finire il MEF diceva che l’esenzione totale dall’IMU prima casa avrebbe costituito, ad unanime parere di Bankitalia,  del FMI e della Commissione per l’attuazione del federalismo fiscale, un intervento iniquo e inefficiente. Non ultimo l’IMU secondo il MEF garantiva uno standard elevato di responsabilizzazione dei governi locali. Sappiamo come è andata a finire, o meglio sappiamo solo una parte della storia. Gli ultimi capitoli sono ancora da scrivere. Ma è ormai evidente che il pagamento dell’IMU sulla prima casa è stato sospeso e abolito nel 2013 solo per sopravvivere senza governare. Quanto alle politiche di bilancio i numeri 12, 13 e 14 della Commission Opinion sulla proposta di bilancio per il 2014 non lasciano molti margini. Il mancato raggiungimento degli obiettivi sul debito impedisce di utilizzare la clausola sugli investimenti. Il sistema locale di tassazione ha bisogno di un riorientamento strutturale. Le scelte sull’efficienza della spesa pubblica sono state rimesse all’attività istruttoria di una commissione. Il piano di privatizzazioni incide solo per lo 0,5% del rapporto tra debito e PIL. La proposta di bilancio non assicura il rispetto per il 2014 delle regole del patto di stabilità e crescita. Anche in questo caso sappiamo solo una parte della storia. La legge di stabilità è ancora in viaggio, ha superato l’ostacolo del mutamento di assetto della maggioranza. Ma le questioni poste dalla Commissione sono ancora tutte sul tavolo. Prendersela con il rigorismo serve a poco. L’inseguimento del PdL ieri e del nuovocentrodestra oggi ha tutta l’aria di portare ad un assetto di prolungato stallo decisionale, un assetto sì stabile ma di quella stabilità da cimitero di cui ha parlato il WSJ nei giorni scorsi. L’effetto overpromising degli alfaniani è già in corso: non possono certo farsi sfuggire consensi in nome delle riforme strutturali. La strategia dell’assalto di Forza Italia è lì pronta per essere scatenata contro di loro. E il prevedibile allineamento di una frattura elettorale sul crinale dell’euro e più in generale dell’Unione europea, specie in vista delle elezioni per il Parlamento europeo, renderà ancora più fragile la compagine di governo. Sopravvivere senza governare sarà sempre più difficile anche se continuerà ad essere l’unica cosa che la nuova maggioranza a scartamento ridotto è in grado di fare. L’ennesimo gioco delle parti a proposito della riforma costituzionale e di quella elettorale lo dimostra. Letta e Alfano (e Napolitano) hanno bisogno di un qualche proporzionalismo potabile e di una forma di governo debole. Al contrario tutti gli altri hanno bisogno di un sistema elettorale che faccia scegliere agli elettori maggioranza e leader dell’esecutivo. E di una forma di governo che assecondi questo potere di scelta e non lo ostacoli con elastici e indefiniti poteri di garanzia. Il contrasto non appare componibile se non a prezzo della resa di una delle parti. Anche la timida prova riformista dei saggi esce spazzata via da questa nuova fase. Perché accanirsi dunque quando è evidente che in una fase come questa le riforme sono scritte in base agli interessi di breve periodo degli attori in gioco? Su fisco locale, bilancio e riforme costituzionali questi interessi stanno portando allo stallo del sistema quando invece sarebbe essenziale esprimere una capacità di decisione di lungo periodo. Una qualità che Letta non può certo acquisire nei prossimi dodici mesi. Perché aspettare ancora per tirare le conclusioni?    

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