Sinistra e identità

Tutti a parlare della scissione ma, come si sarebbe detto una volta, i contenuti? Ci riprovano Alesina e Giavazzi, un po’ ripetitivi ma il discorso va preso sul serio e non equivocato. Liberalizzare l’economia, rendere fluido il mercato del lavoro, ridurre la spesa pubblica, tagliare le regolamentazioni protezionistiche, mercatizzare e rendere più equo il sistema pensionistico: sono tutte politiche liberiste. Un pezzo di sinistra ha pensato che il suo mestiere dovesse essere invece quello di continuare a irrigidire l’economia, garantire posti di lavoro e non opportunità di lavoro, aumentare la spesa pubblica, moltiplicare le regolamentazioni, finanziare a debito la spesa pensionistica. Giungendo così a ridurre le opportunità quando invece allargare le opportunità è il mestiere principale della sinistra. Da qui l’essere di sinistra delle politiche liberiste. Su questa linea si sono collocati venticinque anni di politiche riformiste di sinistra. E sono stati anni di successi - anche il bistrattato Blair ottenne risultati brillanti nell’azione contro l’esclusione sociale - nei quali si è toccato con mano che liberismo di sinistra e liberismo di destra (Blair e Thatcher) non sono la stessa cosa. In fondo Obamacare è l’ultimo esempio di liberismo di sinistra. Venticinque anni nei quali la frattura destra sinistra si è ristrutturata rispetto ai gloriosi trenta del welfare statalista del dopoguerra, quelli nei quali abbiamo visto proseguire i conflitti tra classi sociali, tra stato e chiesa, tra città e campagna. Il punto è che questa frattura oggi non è più un driver. Non ci si divide tra liberisti di destra e di sinistra, ovviamente non lo si è mai fatto in modo esaustivo ma in quegli anni lo si è fatto o comunque il racconto sull’averlo fatto ha avuto il sopravvento. Ora il racconto si distende lungo un sentiero diverso che va dall’apertura alla chiusura, della libertà del commercio alla protezione corporativa o statalista, dal primato del diritto globale con molte fonti e molti poteri a quello della legge dello stato con una fonte e un potere, dall’identità salda e aperta all’identità ideologica e chiusa. Quest’ultimo punto merita qualche altra parola. La questione del “noi” sta diventando decisiva, nel bene e nel male. L’impasto tra passioni e interessi, tra costruzione dell’identità collettiva e razionalità mezzo-scopo subisce un mutamento. Nella vittoria di Trump, di Farage e del No al referendum italiano c’è il prevalere dell’ideologia identitaria, il timore dei rischi dell’apertura, la paura prima ancora della rabbia. A questa deriva del “noi” occorre rispondere in modo persuasivo. C’è un “noi” che è chiusura ma c’è una “noi” che è apertura. Non si combatte la buona battaglia dell’apertura cancellando il “noi”. Who we are diceva Samuel Huntington a proposito degli Stati uniti. Si può rispondere con una forzatura nativista a questa sfida, ed è una risposta da identità chiusa. Ma a questa non si contrapporre una risposta costituzional-procedurale, del tipo noi siamo le nostre regole costituzionali. La via stretta dell’identità aperta che seleziona senza erigere muri, che sceglie lasciando aperta la possibilità di essere scelta o anche rifiutata è quella giusta. Stretta, molto stretta. Ma di lì dobbiamo passare.

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