Proporzionale no, grazie

Tra le mille dichiarazioni che si rincorrono nell’estenuante rompicapo della legge elettorale, Emanuele Macaluso concede a il Foglio una bella intervista piena di spunti arguti che meritano attenzione. Le conclusioni, apparentemente un po’ fuori dal coro, vanno nel senso di una chiamata alle elezioni con la legge che c’è, quella fabbricata dalla sentenza della Corte costituzionale. Elezioni che consegnerebbero al paese un parlamento sì frammentato ma utile a intraprendere, proprio perché proporzionalistico, un vero cammino di riforma costituzionale: una sorta di legislatura costituente. Così come nel 1946 si elesse, con legge proporzionale, un’assemblea per approvare la costituzione. A metà strada tra la provocazione e l’analisi politica Macaluso riesce però a mettere in fila tutti i vizi e i gli errori della cultura costituzionale della tradizione comunista e riformista italiana, per usare il titolo del suo ultimo libro. Il triangolo di ferro di questa tradizione è composto di tre lati: il legame tra forma di governo parlamentare e partiti burocratici di massa; l’illusione di pensare la legge elettorale come una sovrastruttura della dinamica politica; il sospetto nei confronti del governo del leader - con o senza partito – fulcro della democrazia del pubblico. Nell’intervista il triangolo si mette all’opera da subito legando – voi che siete giovani non ve lo ricordate, dice Macaluso – Mario Segni a Matteo Renzi. Li lega perché entrambi esprimono la dinamica dell’innovazione carismatica agganciata all’affermazione di una democrazia governante maggioritaria. Entrambi in sostanza vogliono vincere le elezioni con una forzatura democratica, quella che sta dietro alla trasformazione dei voti in seggi permessa da un sistema elettorale di tipo maggioritario. Per inciso è quanto sostiene anche Claudio Sardo che in un articolo sull'Unità di oggi tende però a inglobare con troppa facilità tutta la cultura costituzionale della Dc in questo schema. In realtà dalla Costituente in poi la Dc ha in gran parte espresso una cultura “governista”. Basti qui ricordare la posizione di Elia e Andreatta sull'unione personale tra leader del partito e primo ministro e quella di Mortati che già negli anni '70 diventa pro maggioritario e pro legittimazione diretta del premier. Allo stesso modo Segni e Prodi, a differenza di quanto scrive Sardo, sono in realtà in linea diretta con la cultura costituzionale Dc. E’ invece la cultura delle varie schegge minoritarie post-dc, a cominciare dai segmenti più centristi che per difendere rendite proporzionalistiche hanno assunto le posizioni assemblearistiche che alla Costituente erano state del Pci. Ecco all’opera il secondo lato del triangolo. La legge elettorale è una sovrastruttura, non la si può usare come clava per rovesciare i rapporti di forza reali. Altrimenti si finisce come Segni che aveva in mano il biglietto vincente della lotteria ma lo ha perduto. Il marchingegno intellettuale è ancora assai diffuso nel mercato delle idee della politica italiana. Ne ha fatto largo uso anche il giudice relatore che ha steso le motivazioni della sentenza della Corte costituzionale sulla legge elettorale. Le elezioni sono un censimento e come ogni censimento debbono riprodurre la realtà delle cose. Se qualche distorsione è ammessa nel processo di riproduzione, allo scopo ad esempio di garantire maggioranze parlamentari stabili, questo non vuol dire che la rappresentanza politica finisca di essere essenzialmente rispecchiamento. In parlamento dobbiamo trovare una riproduzione dello spettro delle posizioni politiche degli elettori. Così come un censimento riproduce, come uno specchio, la distribuzione dei cittadini sul territorio. E’ questo il codice genetico del parlamentarismo. E siamo al terzo lato. Questo rispecchiamento, che naturalmente non è possibile così come lo si racconta, Macaluso da saggio comunista riformista non è così ingenuo da pensare secondo un democraticismo dilettantesco, ha un interprete: il partito burocratico di massa. Il partito non esiste per consentire di organizzare la competizione elettorale, selezionare e strutturare le alternative in campo, razionalizzare il comportamento dei parlamentari e garantire una maggioranza funzionante ai governi scelti dagli elettori. No, il partito esiste per organizzare la società, interpretarne l’espressione sintetica della volontà politica, trasferire questo processo nelle aule parlamentari e mettere in parlamento al centro di questo sistema. Il gioco è fatto. Anche un comunista riformista duttile e spregiudicato, nel senso di libero, come Macaluso non esce dal modello cognitivo novecentesco del partito strumento collettivo della supremazia organizzata della politica sulla società. La dinamica sociale che si esprime nel partito struttura alla fine la società stessa, in una sorta di circolo virtuoso. Ecco perché la legge elettorale è  una sovrastruttura. Ecco perché la legge elettorale non può fare forzature democratiche. Quello che in Macaluso è divertito e provocatorio gioco intellettuale diventa invece, per i protagonisti della politica quotidiana, una formidabile arma ideologica. Chi per convinzione, chi per convenienza, quasi sempre i primi nascondono quello che i secondi esibiscono sinceramente, sono in molti a sfoderarla. Da qualche giorno lo fanno aggiungendovi maliziosamente un riferimento più o meno diretto alla sentenza della Corte costituzionale. E se non giungono a dire, qualche giurista - anche di peso - provò a farlo nella storia repubblicana, che solo la legge elettorale proporzionale è compatibile con la costituzione, beh non mancano i “le maggioranze non si fabbricano per decreto” e i “il bipartitismo non si fa con la legge elettorale”. In realtà ciò che stanno difendendo è il potere di veto e di condizionamento di più o meno piccoli gruppi di interesse. I partiti a vocazione maggioritaria, quelli che hanno un leader forte che si candida a guidare l’esecutivo, cercano i voti di tutti e pensano a vincere e governare, conoscono l’urgenza di regole elettorali che stabiliscano vincitori e vinti. Hanno bisogno di regole che esaltino la loro capacità di parlare oltre gli steccati. I partiti di nicchia, quelli nei quali gli interessi degli eletti si possono soddisfare anche a danno della gran parte degli elettori, sanno fin troppo bene che sono le regole istituzionali e la legge elettorale a fare la differenza. Per loro è essenziale che non ci siano né vincitori né vinti. Per la loro sopravvivenza, in primo luogo. Ma anche per l’incremento della loro influenza politica. Per questo ogni passaggio proporzionalistico della lunghissima transizione del sistema politico italiano è un evento che ci riporterebbe al triangolo novecentesco di Macaluso, senza l’irriverenza comunista e riformista di Macaluso. E soprattutto senza i partiti di quel novecento. Quindi leader deboli, governi di coalizione – se non larghe intese perenni - deboli, micro gruppi di interesse forti, elettori che danno le carte senza decidere granché. Uno scenario preoccupante: la democrazia della paralisi decisionale altroché la democrazia del pubblico. Paradossalmente Macaluso si rivela alla fine un costruttivista inconsapevole, così come i cattolici centristi di Todi, convinto sotto sotto più di tutti del ruolo dell'ingegneria elettorale, nella convinzione che si tratti solo di ristabilire un sistema proporzionale per far ritornare a galla le identità sociali che ci manifesterebbero naturalmente se solo non fossero compresse e distorte dalle regole elettorali. Il problema è che quelle identità non ci sono proprio più e che, invece dei comunisti e dei democristiani, in una gigantesca eterogenesi dei fini, nascerebbero nuovi frammenti di breve periodo, alcuni di opposizione antistema e altri di centrismo spregiudicato. Altro che fase costituente, una scombinata fase destrutturante.  

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