L'ultimo libro di Salvatore Vassallo

Se volete capire bene le riforme istituzionali di cui oggi si parla, è utilissimo l’agile volume di Salvatore Vassallo, “Liberare la politica” (Il Mulino, Bologna, 2014, pp 184). La ricostruzione parte dalla scorsa legislatura, che fu l’ennesima occasione mancata per riforme già mature da tempo. Lo schema normativo (il dover essere) concettuale è quello di allineare pienamente il funzionamento della democrazia italiana sulle grandi democrazie competitive europee, senza le nostalgie assemblearistico-proporzionaliste che costituivano l’anomalia del primo sistema dei partii (p. 97) e senza bisogno di imboccare la soluzione semi-presidenziale (p. 7) e 61. Per non ripetere gli errori della XVI, in cui, specie dopo l’avvento di Monti, la separazione del tavolo di Governo da quello delle riforme (affidato ai partiti) si rivelò improduttiva, Vassallo ritiene invece positivo il protagonismo diretto di Renzi dal Governo e la sua fissazione iniziale di un minimo di contenuti imprescindibili e di una tempistica incalzante, in n rapporto che si rivolge anche direttamente al Paese (p. 20). Per inciso, Vassallo ha tutte le ragioni nel difendere questo approccio anti-assemblearistico nel metodo: tutte le principali riforme che hanno rimosso poteri di veto hanno visto come perno il rapporto interno al vertice del Governo (dalla limitazione del voto segreto con l’accordo De Mita-Craxi nel 1988) e il rapporto diretto col Paese (Governo Amato con l’elezione diretta del sindaco su spinta referendaria nel 1993 e poi Governo Ciampi con la legge Mattarella). C’è coerenza tra metodo e merito: i soggetti che hanno l’interesse maggiore a rimuovere i veti sono il Governo (che ne è vittima) e il corpo elettorale (che è così impedito nel poter far valere responsabilità chiaramente imputabili). Proprio il movimento referendario riuscì a imporre con chiarezza dal 1993 ne comuni il modello di democrazia competitiva (p, 29), sperando le derive oligarchiche e impotenti degli anni precedenti. In presenza di una frammentazione di partenza molto elevata del sistema dei partiti non è possibile prescindere dallo strumento del premio di maggioranza con eventuale ballottaggio nazionale così come previsto dall’Italicum, cosa che non si concilia col bicameralismo paritario, per il rischio di due maggioranze divaricate (p. 51). L’altra ragione per la riforma del bicameralismo è quella, sull’asse centro-periferia, di completare il disegno del Titolo Quinto che abbisogna di una Camera rappresentativa soprattutto, anche se non esclusivamente, dei legislatori regionali (p. 81), Quanto all’elezione dei singoli deputati l’optimum sarebbe certo il collegio uninominale, strumento semplice nell’individuare i protagonisti della competizione, ma non possono neanche essere demonizzate le liste bloccate quando siano corte e quando, quindi, siano più vicine al collegio uninominale che non alle maxi-liste anomale della legge Calderoli (p. 52). Ovviamente il problema della governabilità non può essere risolto solo puntando sullo strumento del sistema elettorale, che può al massimo designare un vincitore certo, ma che da lì in poi è impotente. Si tratta quindi di utilizzare la regolamentazione della sfiducia e del potere di scioglimento per disincentivare le crisi: Vassallo propone di riprodurre le efficaci norme spagnole (pp. 64/65) che danno al Premier il deterrente dello scioglimento, a meno che la Camera non sia grado di precederlo e di sostituirlo con la sfiducia costruttiva, invece delle confuse norme antiribaltone ipotizzate a suo tempo nella riforma del centrodestra (p. 63) Nel libro si ritrovano poi varie altre proposte mirate e coerenti con l’impianto complessivo, anche se la loro efficacia sarebbe meno evidente pe il grande pubblico: il superamento dell’anomalo potere di decisione del Presidente della Camera sulla programmazione (pp. 86/87), che andrebbe sostituito da una più chiara responsabilizzazione di maggioranza e di Governo (che consentirebbe anche di superare gli eccessi di decretazione che con la conversione diventano una forma di degenerazione assembleare quantitativa e qualitativa, p. 91), un potenziamento delle commissioni in sede redigente sgravando i lavori di Aula (p. 108), l’istituzionalizzazione della minoranza più grande, cioè l’Opposizione, con maggiori poteri di controllo (p. 109). Coerente con questo schema anche il modello di partito estroverso, contendibile, in quanto aperto nelle decisioni chiave ai suoi elettori, che è disegnato dallo Statuto del Pd e che si è dimostrato capace di incanalare la spinta all’innovazione (pp. 142/143 e 150). Ciò ha anche consentito di superare l’anomalia italiana, già denunciata da Elia in termini debolezza del Governo e di mancata responsabilità, anche se comprensibile nel primo sistema dei partiti quando non era praticabile l’alternanza, della dissociazione tra segretario del partito di maggioranza e Primo Ministro (pp. 160/161 e 165). Non a caso Renzi, a partire dalle primarie di Firenze, non si sarebbe mai affermato senza quel modello di partito, sanando così il limite storico del centrosinistra, opposto a quello del centrodestra, ossia disporre di un partito senza una leadership efficace (p. 16 e 167).

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