Libia: i limiti del disagio cattolico

C’è disagio in parte del mondo cattolico italiano per le caratteristiche dell’intervento in Libia. Se ne possono individuare le cause e si può tentare di riorientarlo, ad esempio verso i punti deboli dell’intervento. Prima ancora conviene però ragionare sui contenuti di questo disagio. Il principio della “responsabilità di proteggere” sta con tutta evidenza sullo sfondo della risoluzione 1973 del Consiglio di sicurezza dell’ONU che autorizza l’azione in Libia. Si tratta di un principio che ha una lunga storia nella filosofia del diritto e nel diritto internazionale e che è stato più di recente riproposto formalmente dall’Assemblea Generale della stessa ONU. Esprime l’idea che la difesa dei diritti umani e l’azione di contrasto ai crimini di guerra, ai genocidi, alle operazioni di pulizia etnica possa comportare il ricorso all’uso della forza e non possa essere ridotta ad un’istanza morale priva di qualsiasi effetto giuridico. Benedetto XVI, nel suo discorso all’ONU dell’aprile 2008, ha ricordato come l’azione della comunità internazionale con la quale si dà corso a questa responsabilità “non deve mai essere interpretata come un'imposizione indesiderata e una limitazione di sovranità. Al contrario, è l'indifferenza o la mancanza di intervento che recano danno reale”. La responsabilità di proteggere è dunque un vero e proprio principio giuridico al quale è collegato il diritto di ingerenza umanitaria. Responsabilità di proteggere e diritto di ingerenza sono gli strumenti utilizzati per superare la frattura tra diritto e morale nel campo della tutela dei diritti umani, ridimensionando le dottrine assolutiste della sovranità degli stati e dando corpo ad una visione poliarchica della politica internazionale, nella quale più centri di potere concorrono alla tutela dell’ordine e della sicurezza. Con essi tramontano alcuni aspetti dell’ideologia dello stato moderno, l’ideologia che ha negato ogni connessione tra diritto e morale, ha contrastato la riduzione dello stato ad uno degli ordini politici, né assoluto né monopolista ed ha azzerato l’autonoma rilevanza delle ragioni umanitarie, costantemente considerate mera copertura di interessi nazionali. Gli interessi nazionali non scompaiono, ovviamente, nel nuovo quadro ma trovano una loro composizione con altri interessi, una composizione anch’essa plurale e articolata. Difficile immaginare, tra questa evoluzione e l’insegnamento sociale della Chiesa, un’incoerenza dietro la quale costruire i contenuti del disagio cattolico. La convergenza di più fonti verso questa evoluzione è forse alla base di questo disagio, ne è in qualche modo la causa. Si tratta infatti di una convergenza schiettamente liberal democratica, alimentata dagli aggiornamenti dell’insegnamento sociale della Chiesa, dalle dottrine dell’interventismo democratico, e dai cambiamenti epocali introdotti negli anni novanta nelle politiche internazionali dei governi americano e britannico. E’ in realtà la fine del bipolarismo USA-URSS a far rinascere problematiche e principi accantonati negli anni della guerra fredda ma  già contenuti nel diritto internazionale e nella “costituzione materiale” dell’ONU. Gran parte del mondo cattolico sembra non aver ancora metabolizzato questo passaggio e finisce con il vedere la tutela della effettività del diritto internazionale come una sorta di espressione della volontà egemonica del mondo occidentale. In realtà il punto debole di tutta la vicenda libica, quello sul quale dovrebbero appuntarsi le critiche del mondo cattolico e non solo, va al di là delle questioni di principio e delle pregiudiziali ideologiche. Riguarda infatti la compiutezza della strategia dell’intervento autorizzato dall’ONU. Se il minimo comun denominatore che ne ha consentito il varo, nel quadro giuridico che abbiamo visto sopra, è costituito da una sorta di “selective containment” (impediamo a Gheddafi e alle sue truppe di proseguire azioni di macroscopica violazione dei diritti umani in Libia) occorre dire che si tratta di una piattaforma insufficiente ad assicurare non solo la cessazione degli abusi ma anche la costruzione delle premesse di una stabilizzazione. Non solo. Neppure la rimozione di Gheddafi e del suo regime sono sufficienti a garantire questi obiettivi. Quel che serve è la messa a punto di un’agenda complessiva per tutta l’area, un grande accordo che favorisca la tutela dei diritti umani, la stabilizzazione e il pieno inserimento dell’area nel processo di globalizzazione giuridica ed economica, favorendo le dinamiche moderate all’interno dei diversi paesi.  E’ su questa mancanza che dovrebbe fondarsi il disagio: tutto il resto finisce con l’apparire come legato ad un contesto che non c’è più.

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