La strada impraticabile spinge a cercare ancora, di Giorgio Armillei

Due cose per chiarirsi da subito. Un ipotetico governo M5s-Lega proverà a realizzare politiche sbagliate e con tutta probabilità sarà costretto a fare rapidamente marcia indietro, non sarebbe la prima volta che maggioranze populiste debbono fare i conti con la realtà. Tuttavia, visti i pesi elettorali assegnati dal voto del 4 marzo, si tratterebbe di un governo espressione della massima compatibilità programmatica. Allo stesso tempo tornare a votare con questa legge elettorale e con questa forma di governo non produrrà cambiamenti in ordine alla garanzia di maggioranze solide e di continuità tra voto e formazione del governo. E tuttavia non sarebbe la prima volta che accade nelle democrazie parlamentari: se gli elettori distribuiscono i pesi a ventaglio e non si dispone di una legge elettorale che trasforma il ventaglio in una maggioranza di governo non c’è fisarmonica presidenziale che tenga, bisogna tornare dagli elettori. Se si disponesse dunque di una terza via per evitare governi populisti e rischiose - se non per la democrazia quanto meno per l’efficacia del sistema decisionale - repliche elettorali, dovrebbe essere esplorata a fondo, non lasciando nulla di intentato. Anche smussando spigoli, anche - come è fisiologico - facendo passi indietro, tutti e contemporaneamente, su punti programmatici non essenziali o non realistici. Confesso però di non essere riuscito a capire bene cosa effettivamente pensano tutti coloro che in queste settimane si sono spesi per spiegare che la terza via c’è e sta nell’alleanza – contratto di governo tra M5s e PD. Non sono riuscito a capirlo soprattutto perché tra i sostenitori di questa terza via si usano argomenti diversi e spesso anche, almeno così a me sembra, incompatibili. C’è chi sostiene che la convergenza è possibile in ragione di una comune sensibilità contro le diseguaglianze, sensibilità con cui reagire alla vera e autentica frattura sociale che ha determinato l’esito del voto del 4 marzo. Da questa comune sensibilità nasce così una sorta di ricetta neokeynesiana della domanda. Ma si tratta di una ricetta per cui gli elettori hanno votato M5s e non PD. Sarebbe come chiedere al PD di sostenere le politiche del M5s. C’è chi sostiene che l’Unione europea ha bisogno di rimettere in equilibrio rigore e crescita; che per farlo Macron non può essere lasciato solo contro gli alleati ordoliberali della Merkel; che questo sostegno può scaturire solo dal PD e che solo il M5s è disposto ad allearsi con il PD, al netto delle uscite per lo più tattiche di Berlusconi; che questo sostegno richiede politiche dell’offerta che rimettano l’Italia sui giusti binari della crescita, senza scassare i conti della spesa pubblica, eliminando le barriere del familismo alla crescita della produttività. Si tratta però di una ricetta per cui gli elettori hanno votato PD e non M5s. Sarebbe come chiedere al M5s di sostenere le politiche del PD. C’è chi sostiene che la convergenza tra PD e M5s è possibile su politiche pikettyane, mettendo fine, almeno per quanto riguarda quella che si pensa come la “sinistra di governo” italiana, al dominio dell’ortodossia globalista, e neutralizzando inutili questioni di principio tra PD e M5s che hanno a che fare con il passato e non con il futuro. Si tratta però di una ricetta per cui hanno votato contro il 68% degli elettori e di quel 68% i più vicini a quelle politiche sono quelli del 17% della Lega e non quelli del PD. Sarebbe come chiedere al PD di fare le politiche della Lega. Una terza via dunque un po' troppo arcobaleno per poter aspirare a raggiungere risultati solidi. Come si diceva, si arriva alla terza via da posizioni diverse e in qualche caso incompatibili. Mettere insieme politiche neokeynesiane della domanda, nuove politiche dell’offerta e politiche antiglobaliste di impianto pikettyano sembra un’operazione che sfida qualsiasi tenuta di un possibile e ragionevole accordo di coalizione post-elettorale. Abbiamo così una prima via coerente al suo interno ma dannosa e destinata a una rapida marcia indietro. Una seconda via possibile ma inefficace. Una terza via quasi impraticabile. Iniziare a fare danni per capire che la strada da prendere è un’altra non sembra certo una buona idea, anche se alla fine qualcosa si finirebbe con l’apprendere. Fare qualcosa di inutile, sperando che i mercati ce lo lascino fare, appare solo un modo per prendere tempo sperando che qualcosa maturi. Iniziare qualcosa di impraticabile appare l’unica cosa che non si può neppure avviare: potrebbe farlo solo chi decidesse di rinunciare a sé stesso. Tre vie diversamente improduttive, anche se non tutte impraticabili, esigono che non si smetta di cercare. Una quarta è sul tavolo da qualche giorno, un mix di larga coalizione e riforma costituzionale. Anche in questo caso però i dubbi sulla sua praticabilità dilagano. Chi è l’imprenditore politico di questa via? Perché gli elettori dovrebbero appassionarsi dopo il 4 dicembre 2016 al dilemma costituzionale come qualcosa da cui dipende il loro futuro? Nel tempo della riforma cosa ne è del tempo “sospeso” delle politiche? Ma forse anche questa quarta via merita un tempo per essere approfondita, in fondo abbiamo passato 60 giorni a fare la conta dei veti.

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