La libertà religiosa, problema o soluzione? Rileggere John Courtney Murray oggi per superare l’analfabetismo di ritorno sulla libertà religiosa, di Teresa Bartolomei

La libertà religiosa è un diritto fondamentale che nel mondo attuale non solo non gode di buona salute, ma, quel che è peggio, risulta in regressione costante da anni. Secondo i rapporti di osservatori internazionali governativi e non, la libertà privata e pubblica di fede (di pratica individuale e associata della propria credenza) è oggetto crescente non solo di diffuse e consistenti limitazioni e discriminazioni sociali e politiche, ma addirittura di persecuzioni puntuali e sistematiche che in alcuni casi prendono le dimensioni apocalittiche dell’etnocidio. Sono violenze in corso, non memorie dolorose ma archiviate, quelle (per non nominarne che alcune) perpetrate contro i mussulmani di etnia Rohingya e Uigura, in Myanmar e Cina, e quelle inferte ai cristiani in Nigeria, nel conflitto sudanese e nell’area mediorientale. Tutte si configurano come una strategia di cancellazione, perseguita attraverso l’espulsione, l’apostasia (ribattezzata come rieducazione) e conversione forzate, o addirittura lo sterminio, di intere comunità religiose trattate come un nucleo estraneo, o addirittura tumorale, nel corpo di unità o aree geopolitiche ridisegnate coercitivamente, in rottura con il contesto attuale o tradizionale di pluralismo etnico e religioso, sulla base di imperativi ideologici di monismo e purezza sociale, in una sindrome patologica di alterofobia (il diverso rifiutato non è uno straniero, qualcuno che viene da fuori, come nella xenofobia, ma un componente interno della propria comunità, percepito e rifiutato come incompatibile con la sua grammatica di appartenenza, con la Leitkultur). 

Se questo aumento dell’intolleranza violenta e distruttiva della pace sociale, dei diritti e della sopravvivenza di intere comunità, è un problema gravissimo, non meno preoccupante e politicamente rilevante nel quadro attuale è la crisi della libertà religiosa in contesti di sua piena tutela giuridica e istituzionale. 

Persino all’interno di Paesi democratici in cui la libertà religiosa è patrimonio costituzionale e politico solidamente istallato,  è possibile infatti osservare una regressione culturale in relazione  a questo diritto, che produce scenari politici di polarizzazione divisiva, in cui il pluralismo non è più valorizzato come ricchezza sociale e culturale da coniugare politicamente in  sintesi comprensive ed equilibrate di mediazione del diverso, ma è mortificato e manipolato come terreno di scontro, in vista di una neutralizzazione legislativa del diverso, che al massimo tollera  l’alterità nel ridotto afasico del privato, privo di ogni espressione ed incidenza pubblica. 

Un’interpretazione infondata e fuorviante del principio di libertà religiosa, come libertà di imporre politicamente le implicazioni etiche del proprio credo religioso, è divenuta il volano di quelle culture wars che a partire dagli anni Novanta del secolo scorso hanno acquisito sempre maggiore visibilità ed impatto nella società statunitense, ridisegnandone lo scenario politico in chiave di un riallineamento ideologico tra politica e religione e di una polarizzazione tra fronti inconciliabili che nell’incarnazione patologica ma non aleatoria di un Presidente violentemente illiberale come Donald Trump ha raggiunto davanti agli occhi di tutti il potenziale di una minaccia micidiale alla democrazia.

Il tradizionale bipolarismo politico, per due secoli dispositivo performativamente salutare della democrazia americana, si è tendenzialmente irrigidito in un bipolarismo etico-religioso che arma il confronto politico con le munizioni dell’incondizionatezza valoriale propria dell’appartenenza religiosa e dei suoi corollari etici.  La fallibilità prudenziale della dialettica politica, ancorata al metodo storico induttivo della ricerca di mediazioni contingenti tra principi generali e situazioni, viene negata e rimossa dalla pretesa di incondizionatezza propria dei rispettivi valori di riferimento, come se in gioco fossero i valori stessi e non soluzioni ad essi ispirate, capaci di includere il più ampio consenso sociale nel rispetto della pace sociale, la giustizia, la libertà di ognuno e il nucleo di principi iscritto nella costituzione, su cui si fonda la convivenza di una società democratica. 

In questa destituzione mortificante, il diritto alla libertà religiosa viene frainteso, da una parte consistente dell’opinione pubblica, come semplice tolleranza: a individui e comunità è concesso di aderire a visioni del mondo alternative alla propria, ma nella restrizione sistematica, giuridica e sociale, del loro diritto ad ogni implementazione pubblica. Se il governo resta vincolato al muro di separazione tra Chiesa e Stato (la prima clausola del Primo Emendamento della Costituzione americana,[1] quella di riconoscimento, o più esattamente di non riconoscimento ufficiale da parte dello Stato di una qualsivoglia religione), la seconda clausola (di libera professione del proprio credo religioso) è interpretata come diritto di una parte della società (auspicabilmente maggioritaria) di imporre la traduzione legislativa del proprio punto di vista etico religiosamente fondato anche a settori della popolazione secolarizzati o comunque diversamente opinanti,   in merito a questioni che non sono oggetto di ampio consenso morale in seno alla società, ma risultano al contrario catalizzatore di divisioni profonde, intercettando processi evolutivi di ridefinizione etica in seno alle stesse tradizioni religiose e più in generale socioculturali (come le problematiche attinenti alle questioni di genere e alla sessualità, alla bioetica, all’educazione). 

 

Se un principio pieno di libertà religiosa raccomanda di  trovare soluzioni politiche che subordinano la preminenza valoriale del proprio punto di vista a considerazioni di pace sociale, giustizia e libertà di terzi, limitando al massimo l’esercizio coercitivo della legge rispetto alla libertà di coscienza dei soggetti coinvolti, nel riallineamento religioso-politico delle culture wars (in cui la seconda clausola cancella di fatto la prima), l’appartenenza religiosa  pretende di usare la politica come uno strumento di controllo sociale, finendo (come sempre avviene per ogni sciagurata avventura di illiberale cancellazione delle divisione delle sfere di normatività) per venire a sua volta strumentalizzata da parte della politica stessa: le masse degli elettori religiosamente motivati in questa chiave di immediatismo primario e semplicisticamente autoritario finiscono per trovarsi agli ordini di agende politiche dettate da interessi del tutto estranei alle loro preoccupazioni, oscurati abilmente dalla retorica moralistica con cui i leader di turno ammantano  il proprio messaggio. 

 

Nel caso di Trump emerge a evidenza macroscopica l’opportunismo manipolatore di un politico del tutto disinteressato ai principi e ai valori religiosi, che difende pretestuosamente a colpi di nomine di giudici federali e supremi, calpestando scelleratamente questi stessi principi e valori nel privato, e nel pubblico dell’incoerenza con la loro comprensività generale (la scelta pro-life si arresta così, per esempio,  sulle soglie del braccio della morte, riattivato mostruosamente come organo di carneficina legale).  Quello che turba non è perciò soltanto la  cecità di milioni di cittadini anestetizzati da un dispositivo di disinformazione mediatica orchestrato e finanziato da poteri economici interessati al controllo politico dell’opinione pubblica (poteri finanziari di cui Trump, uomo d’affari incapace, finito sei volte in bancarotta, è solo l’isterica marionetta: dai campioni dell’energia fossile, all’industria delle armi, ai monopolisti dell’informazione e della distribuzione, Murdoch e Koch in testa, che sono stati i grandi beneficiari dei risultati di cassa della presidenza repubblicana). Quello che turba, più precisamente indigna, è la sistematica denegazione di questo cinico scollamento tra agenda pubblica e agenda occulta da parte di quelle leadership politiche, culturali  e religiose  che hanno tutti mezzi informativi, diretti e indiretti,  per avere una chiara nozione della situazione, ma optano per un programmatico  mascheramento della realtà, certificando come battaglia di valori la copertura ideologicamente manipolatrice di una sordida strategia di interessi minoritari ma immensi (l’installazione e diffusione delle culture wars coincide direttamente, negli Stati Uniti e nel mondo, con la formidabile risalita della diseguaglianza economica, culminata nell’iniqua sperequazione registrata nel 2018, per cui l’1% della popolazione mondiale detiene una quota di ricchezza equivalente a quella del restante 99%).[2]

È doloroso e pauroso contemplare la ferita alla democrazia americana arrecata da una turba di balordi mascherati e largamente incoscienti di significato e portata di quanto sta accadendo, la cui furia vandalica è equivalente a quella di visibilità social e documentazione mediatica della propria bravata, mandati allo sbaraglio dall’incitamento criminale alla rivolta reiterato dal custode supremo della legge e dell’ordine sociale (due termini scaduti a sberleffo spettrale nella loro ripetuta rivendicazione verbale da parte di chi li stava calpestando di fatto). Tuttavia, per essere costruttiva, la preoccupazione deve convertirsi in analisi, diagnosi e proposta. L’interrogativo su che cosa non funziona nelle nostre democrazie deve articolarsi in identificazione di oggettivi meccanismi disfunzionali e responsabilità soggettive, di processi e di attori. È necessario mettere in luce quali categorie culturali e assiologiche operano come incentivi di divisione sociale e di radicalizzazione fondamentalista. È necessario riconoscere quali soggetti sociali si rendono responsabili di questo processo di polarizzazione che erode il consenso di fondo indispensabile alla democrazia. È necessario proporre correttivi e innescare processi virtuosi in controtendenza con queste dinamiche disgregatrici.

 

Se stigmatizzare il ruolo delle élite nemiche del popolo è una delle armi del complottismo populista che si è dispiegato in uno dei suoi più oscuri e devastanti insuccessi nell’assalto al Campidoglio, caricaturato a roccaforte del deep state, è quindi doverosa e non rinviabile un’analisi spassionata delle responsabilità dei ‘mediatori’, degli agenti principali dell’esercizio di costruzione dell’etica pubblica e della cultura politica delle società nazionali e globale. Le Chiese cristiane, nella loro rivendicazione di contributo pubblico al bene comune della società, non sono esenti da uno scrutinio, che, se condotto con spassionata onestà, evidenzia responsabilità enormi in questa degenerazione della democrazia,  che nel contesto americano ha conosciuto con la presidenza Trump un’escalation destabilizzante e clamorosa, ma che si è prodotta in modo allarmante in tutta Europa, contabilizzando vistose ferite alla legittimità dello Stato di diritto in nome di identità cristiane  degenerate a involucro mitologico di assetti sociali tradizionali in sofferenza profonda.  

Le Chiese cristiane, a cominciare da quella cattolica, a cominciare da quella statunitense, nel loro ruolo di protagoniste nelle culture wars, hanno negli ultimi decenni profondamente disatteso, mortificato, manipolato, quel diritto di libertà religiosa che modella la loro presenza pubblica nella società e che ha trovato una elaborazione di straordinaria chiarezza teologica e giuridica nel Concilio Vaticano II con la dichiarazione Dignitatis humanae (1965).[3]  Nell’appellarsi a questo diritto  come fonte di legittimazione dell’occupazione del potere da parte di soggetti religiosi autoinstallati come attori politici, vasti settori delle gerarchie cattoliche (dagli Usa alla Polonia, dalla Spagna alla stessa Italia) hanno sostanzialmente rovesciato la funzione di pacificazione sociale del principio, deputato alla ricomposizione delle differenze divergenti in pluralismo di convergenza, alla conversione dell’integrismo in integrazione, del separatismo in cooperazione, strapazzandolo ad arma divisiva di affermazione e imposizione unilaterale di normatività etiche non universalmente consensuali. La libertà religiosa, invece di essere, come concepito dai padri costituzionali della carta fondamentale degli Stati Uniti,  uno strumento di riconciliazione, si trasforma in un fattore incendiario di radicalizzazione del dissenso in conflitto, quando non addirittura in mezzo di prevaricazione, finendo (tragicamente)  per essere interpretato dalle punte avanzate  dello schieramento politico progressista come un mantra conservatore, funzionale allo scardinamento delle rivendicazioni di giustizia, uguaglianza e non discriminazione che costituiscono la grammatica del  progressismo liberaldemocratico. In questa contrapposizione, quello che viene perso di vista da entrambi i fronti è il vero significato della libertà religiosa: in una specie di analfabetismo di ritorno, viene disconosciuto il suo nucleo giuridico e religioso, secolare e confessionale, più autentico, sostituito da una precomprensione forzata, riduttiva e infondata.

Tanto più necessaria e urgente si rende perciò attualmente la riscoperta della tradizione costituzionale, teologica e filosofica in cui il diritto alla libertà religiosa viene elaborato e adottato istituzionalmente, in senso allo Stato di diritto e alla Chiesa cattolica, come fondamento di integrazione del diverso, meccanismo fondamentale per ricomporre la diversità sociale in unità politica democratica. Se il fraintendimento sistematico della libertà religiosa ha trasformato in un problema quella che doveva e continua potenzialmente ad essere una soluzione, la crisi sociale e politica creata da questa aberrazione può essere superata solo riattivando il potenziale benefico inerente alla categoria, la sua pertinenza complementarmente religiosa e politica.  

È tristemente eloquente che nella sconfinata letteratura dedicata alle culture wars e al ruolo in esse della libertà religiosa, emerga solo occasionalmente e raramente con riconoscimento adeguato all’importanza del suo contributo,  il nome di J.Courtney Murray, il gesuita  americano che fu protagonista  determinante della sua adozione e della sua formulazione  da parte del Concilio Vaticano II, che nel documento DH metteva fine a un rifiuto  secolare di questo principio, respinto virulentemente, contro la sua progressiva affermazione nel contesto del liberalismo filosofico e politico, come indifferentismo destitutivo del primato assoluto della verità custodita dalla Chiesa Cattolica, presuntivamente garantito solo dalla confessionalità del potere politico. La riflessione di Murray viene marginalizzata nell’ambito della discussione filosofica e giuridica anglosassone come elaborazione di stampo confessionale, e perciò teoricamente trascurabile, mentre in ambito confessionale viene ostracizzata dal vasto fronte conservatore perché incompatibile con il riduzionismo regressivo che spinge a derubricare nuovamente la libertà religiosa a tolleranza, con la rottura dell’equilibrio tra prima e seconda clausola del Primo Emendamento, nella preminenza assoluta della seconda. 

Quello che viene oscurato, in questo secondo fronte, è il robusto dispositivo limitativo enunciato nel documento conciliare (DH, 7) e analiticamente giustificato da Murray nella sua vasta opera teorica, non come depotenziamento del diritto stesso ma come garanzia del suo diretto funzionamento. È precisamente per non essere onnipotente, assoluto, ma da tarare incessantemente per compatibilizzarlo con le altre istanze fondamentali del bene comune (pace sociale, giustizia, eguaglianza e non discriminazione), che il diritto di libertà religiosa è molto più che una prerogativa della coscienza individuale, ma un potente meccanismo di regolazione sociale, di salvaguardia della complessità del bene comune, la cui realizzazione è il fine supremo della convivenza umana, ma di cui nessuna istituzione umana può rivendicare il monopolio interpretativo e gestionale, perché la sua definizione e implementazione si configura piuttosto come processo aperto ed induttivo emergente dalla riflessione,  deliberazione e concertazione sociale piuttosto che come risultato univoco, definitivo e deduttivo di una deliberazione autoritativa unilaterale. 

 

La fulminante sintesi di questi aspetti fornita dal documento conciliare DH della cui redazione finale J.C.Murray è responsabile in misura preminente, condensa nella brevità della enunciazioni di principio una filigrana argomentativa la cui eccezionale densità concettuale, l’ampio respiro teorico e storico, la finezza teologica avanzatissima, vengono esposte con la luminosa chiarezza delle conclusioni di lunghi percorsi di ricerca in un libro scritto da Murray nel 1960 sulla storia costituzionale del principio di libertà religiosa e più in generale sui rapporti tra religione e politica nella tradizione americana. Tempestivamente tradotto e pubblicato dalla casa editrice Morcelliana nel 1965, in concomitanza con la promulgazione del documento conciliare, il libro viene oggi meritoriamente recuperato da un silenzio di decenni con una riedizione curata da Stefano Ceccanti (John Courtney Murray, Noi crediamo in queste verità. Morcelliana, Brescia 2021).

Nella sua introduzione, il curatore ricostruisce il contesto internazionale e politico di disgelo, che non solo promosse i primi passi della presa di distanza dallo stalinismo in area sovietica e alcuni timide prove di dialogo con l’Occidente, ma oggettivamente favorì e accelerò quel percorso di aggiornamento da parte della Chiesa cattolica che convogliava nel Concilio l’impegno di decenni di cattolicesimo politico, intenso travaglio teologico ed esperienze pastorali. Il ruolo preminente nella costruzione delle democrazie postbelliche di partiti politici di ispirazione cristiana (in particolare in Germania e in Italia)  ed eventi come l’elezione di John F. Kennedy, il primo Presidente cattolico degli Stati Uniti, che metteva fine ad una regola  non scritta ma granitica   di esclusione dei cattolici dalla somma carica della maggiore democrazia mondiale, poneva alla Chiesa cattolica responsabilità inedite, dischiudendo urgenze e possibilità di  rinnovamento prontamente colte dal diplomatico di lungo corso Giovanni XXIII e dal suo successore Paolo VI per vincere le resistenze del tradizionalismo retrivo  di una parte della gerarchia, arroccata in un eccezionalismo clericale ormai fuori tempo. 

A partire da questo quadro generale, l’introduzione evidenzia lo specifico ma eccezionale contributo di Murray, che seppe coniugare il patrimonio giuridico del costituzionalismo americano come riscoperta di una verità di fede (l’incoercibilità della coscienza) troppo a lunga oscurata dal dispositivo della saldatura antiliberale tra  trono e altare, associandola ad una limpida riattualizzazione della distinzione  tomista tra precetti etici  e leggi civili in chiave di limitazione liberale del ruolo dello Stato e della politica.

La valutazione storica e di principio di Murray delle due clausole del primo emendamento della costituzione americana come clausole di pace e non di guerra è da recuperare integralmente, nella sua potenza diagnostica e programmatica.  Così come tutto da rileggere e meditare è questo libro, cui il tempo non ha tolto nulla della sua freschezza e attualità e che deve essere adeguatamente valorizzato come un testo di riferimento fondamentale se vogliamo misurarci seriamente con una delle sfide politiche, culturali ed ecclesiali centrali del nostro tempo: la riformulazione della libertà religiosa come soluzione non come problema, come fonte di coesione sociale e non come minaccia alla tenuta delle società democratiche.  L’elezione di un cattolico liberale come Joe Biden alla Presidenza degli Stati Uniti è una ragione di speranza in una rigenerazione democratica a livello americano e globale, ma nessuna azione legislativa e di governo può da sola correggere disfunzioni di natura culturale e religiosa radicate in seno alle comunità e nell’opinione pubblica. È necessario l’impegno di tutti nella ricostruzione delle grammatiche cognitive basilari della democrazia liberale e nella loro riattivazione come patrimonio comune e condiviso del discorso pubblico, precondizione essenziale di un esercizio virtuoso e non distorto della deliberazione legislativa e giuridica e della formazione di un consenso democratico. Bisogna twittare meno e leggere di più, ricominciando da classici come questo grande libro, troppo a lungo dimenticato.

 

 

John Courtney Murray “Noi crediamo in queste verità” (1960), Morcelliana, Brescia 2021 

https://www.amazon.it/crediamo-queste-verit%C3%A0-Courtney-Murray/dp/8837234708


[1] “Congress shall make no law respecting an establishment of religion, or prohibiting the free exercise thereof; or abridging the freedom of speech, or of the press; or the right of the people peaceably to assemble, and to petition the Government for a redress of grievances.”

[2] Cfr. i dati del rapporto Oxfam del gennaio 2018.  Tra il marzo 2016 e il marzo 2017 l’1% della popolazione mondiale aveva incassato l’82% della ricchezza prodotta sulla terra (https://oi-files-d8-prod.s3.eu-west-2.amazonaws.com/s3fs-public/file_attachments/bp-reward-work-not-wealth-220118-en.pdf).

[3] Per una recente messa a punto magisteriale del principio, cfr. il documento della Commissione Teologica Internazionale:  La libertà religiosa per il bene di tutti. Approccio teologico alle sfide contemporanee (2019).

http://www.vatican.va/roman_curia/congregations/cfaith/cti_documents/rc_cti_20190426_liberta-religiosa_it.html

 

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