#italianistatesereni

Più di dieci anni fa Stefano Ceccanti e Salvatore Vassallo pubblicarono un libro che si interrogava su come chiudere la lunghissima transizione del sistema politico costituzionale italiano. La transizione cominciata all’inizio degli anni novanta e, apparentemente, mai terminata. Quel libro conteneva un disegno ampio di indicazioni e proposte di diversi studiosi: alcune forse non rappresentano più il loro punto di vista, altre sono diventate difficilmente realizzabili, altre ancora sembrano trasportate di peso nella riforma costituzionale appena approvata dal parlamento e sulla quale gli elettori sono chiamati a votare. Due punti però di quel composito disegno restano pienamente attuali. Il primo punto, potremmo dire, destinato ai riformatori insoddisfatti: si possono avere molte opinioni personali ma costruire il consenso su una proposta di riforma praticabile significa trovare i punti di equilibrio possibile. La riforma appena approvata, così come la legge elettorale per la Camera, non sono un modello puro da manuale di scienza politica o di diritto costituzionale. Eppure è una riforma che potenzialmente migliora il funzionamento del sistema politico istituzionale: migliora il controllo del governo sul processo decisionale senza intaccare e anzi ampliando le prerogative dell’opposizione; rimette in ordine i rapporti tra stato e regioni; abolisce il bicameralismo perfetto e assegna al Senato il ruolo di tutela delle istituzioni di governo regionale e locale e delle loro competenze costituzionali. Certo fa tutto questo non al meglio, ad esempio perpetua l’equivoco sulla pluralità delle opposizioni – alimentandone frammentazione e debolezza - anziché razionalizzare e rafforzare il ruolo “dell’oppsizione”. Tuttavia lo fa consegnandoci un quadro indiscutibilmente migliore di quello attuale. Il secondo punto destinato ai custodi della tradizione costituzionale: la manutenzione costituzionale fa parte della fisiologia non della patologia del sistema. Quando il nucleo indefettibile dei principi costituzionali - pure esso da concepirsi come immerso nelle pieghe della storia costituzionale, in modo particolare quando si abbia una visione non legalistica del diritto - viene conservato non può non rendersi necessario un adeguamento degli assetti istituzionale alle esigenze del sistema politico. Una costituzione per la democrazia consociativa non può funzionare per la democrazia competitiva e decidente. Entrambe sono democrazie ma nel tempo l’una ostacola l’altra: occorre decidere quale delle due si vuole praticare. La riforma costituzionale lo fa in modo trasparente, cercando così di chiudere la transizione. Come dice Francesco Occhetta nel suo articolo sull’ultimo numero di Civiltà cattolica, la riforma approvata dal Parlamento si muove “dentro un disegno di sviluppo e di adeguamento ai tempi” e non di “inopportuna demolizione del testo precedente”. A coloro infine che – da diverse parti politiche – sono tentati dall’assegnare al referendum di ottobre un significato che va oltre il merito della riforma per estendersi al “merito della fase politica” si può forse consegnare una riflessione che ne normalizza le ansie e le aspettative. I processi di forte riforma costituzionale, dotati di un disegno ampio e focalizzati sulla forma di governo, cioè in sostanza sul funzionamento del sistema decisionale, non possono che realizzarsi con una “trazione governativa”. Tutte le volte che si è tentato di fare diversamente, ancora vittime di una sorta di sindrome vetero parlamentaristica, Bozzi, De Mita-Jotti, D’Alema, si è fallito inesorabilmente. E dunque trazione governativa vuol dire inevitabile impasto tra giudizio di merito e giudizio sul governo che quella riforma ha concepito e portato a conclusione per il tramite della sua maggioranza. Anche in questo caso una lezione di realismo politico.

Condividi Post

Commenti (0)