Intervento di Luca Diotallevi | Incontro di discernimento su Giorgio Armillei (ACI, Terni 11.11.2022)

                              Azione Cattolica Italiana della Diocesi Terni Narni Amelia | Incontro di discernimento

Giorgio Armillei

La forza mite del riformismo

a cura di Stefano Ceccanti e Isabella Nespoli, il Mulino, Bologna 2022

 

Venerdì 11 novembre 2022 | ore 17,30

Sala Rossa Palazzo Gazzoli Via del Teatro Romano – Terni

Online: Facebook dell’Azione Cattolica della Diocesi Terni Narni Amelia

 

Intervento di Luca Diotallevi

 


Spero che ‘stasera sia più facile dire qualche parola in pubblico a proposito di Giorgio rispetto a quanto lo fu l’ultima volta che mi è capitato di farlo.

Questa sera, infatti, si tratta di parlare solo di un frammento della sua vita: si tratta di parlare di un libro. Per quanto molto bello e vivace come questo, un libro è sempre solo una piccola parte di una vita. A maggior ragione ciò è vero per una vita importante.

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Nella scelta delle cose da dire mi sono dato due criteri.

Innanzitutto credo si debba riconoscere che questo è un libro facile. La resistenza che si può provare mentre si leggono queste pagine dipende semmai dal fatto che la precisione dei giudizi e la forza degli argomenti costringono il lettore a prendere una posizione chiara, mettono in crisi comodi pregiudizi e non consentono di nascondersi dietro luoghi comuni. Queste pagine ci fanno provare qualcosa che i discorsi del politico italiano medio o dell’intellettuale italiano medio da tempo non ci fanno più provare, fitti come sono di volgarità, urli, banalità e contraddizioni. Qualche esempio è più che sufficiente.

Se pensiamo alla reazione suscitata tra i cattolici e a sinistra dalla recente proposta di un semipresidenzialismo sul modello di quello francese, non possiamo dire che non sia chiaro cosa Giorgio vuol dire quando a p.57 scrive: «la marcia verso una democrazia governante, capace di decidere e visibilmente controllata dal voto dei cittadini, passa attraverso una qualche forma di legittimazione diretta dell’esecutivo» e lo scrive per l’appunto in difesa del valore e della praticabilità del modello francese (legge elettorale e forma di governo incluse).

Chi fosse interessato alla odierna agitata stasi in cui versa il Pd, non può certo sostenere che parole come quelle che si leggono a p.185 siano difficili da capire: «Chi si aspettava un cambiamento non solo tattico del Pd di Letta rispetto a quello di Zingaretti comincia forse a sentirsi deluso. (…) D’altra parte la sua (di Letta) è stata un’ennesima elezione per cooptazione e non per competizione».

Chi fosse interessato alla guerra in corso in Ucraina difficilmente può definire oscuro il significato di espressioni scritte da Giorgio nel 2014 (!) e dedicate neutralismo della dalemiana Mogherini che si occupò di politica estera prima in Italia e poi in Europa. Scrive Giorgio a p.209ss: «è la Nato lo strumento per far capire a Putin che l’Occidente non è disposto a tollerare arretramenti sul fronte della democrazia e delle libertà individuali. Per farglielo capire oggi anche allo scopo di evitare tensioni molto più pericolose domani».

Ancora un ultimo esempio. Chi guardi con dolore e con amarezza al presente ecclesiale, per chi guardi con sofferenza alla miseria del primo anno di cammino sinodale in Italia – esplicitamente riconosciuta dal presidente della CEI –,è difficile che non risulti chiarissimo il significato di alcune parole di Giorgio  che leggiamo a p.319: «La questione di base resta (…) schiettamente conciliare: cosa ne è e ne deve essere dell’apostolato dei laici esercitato nella forma associata di cui parlano i capitoli dal 18 a 20 della Apostolicam actuositatem, il decreto conciliare sull’apostolato dei laici? L’apostolato dei laici non è una faccenda intraecclesiale». (Il cap.20 è quello dedicato alla azione cattolica, e che la forma associata cui Giorgio si riferisce non è un qualsiasi aggregarsi, ma solo quello che assume la forma particolare e specifica di ‘associazione (ecclesiale)’ come chiarito da magistero, teologia e diritto canonico, tutt’altra cosa, per intendersi, dall’aggregarsi di gruppi, movimenti, confraternite o altro ancora.)

Questi quattro brevi testi sono più che sufficienti per convincersi che si può essere d’accordo o meno con Giorgio, ma che non si può dire che Giorgio non fosse capace di scriver chiaro. Di fronte ai suoi testi suoi, non essendo possibile rifugiarsi nella scusa della poca chiarezza, si è costretti a trovare argomenti all’altezza dei suoi. Questo, semmai, è ciò che può infastidire qualche lettore.

In breve: a me pare che le pagine di questo libro non hanno alcun bisogno di essere spiegate. In un caso del genere, allora, ciò che si può fare è fornire un piccolo contributo all’interpretazione, qualcosa che dia un piccolo aiuto ad affrontare la lettura. È questo è il primo criterio che ho seguito per scegliere cose dire.

Il secondo criterio è la reazione ad una esperienza triste che più volte ho fatto in questi mesi. Mi riferisco allo scandalo che ho provato ad ogni tentativo di appropriarsi del pensiero di Giorgio da parte di chi, nella Chiesa o nella vita civile e politica, ha praticato e pratica orientamenti diametralmente opposti ai suoi.

Di fronte ad una amarezza e ad una indignazione profonde mi è stato d’aiuto ricordare che l’esposizione alla strumentalizzazione è un indicatore tipico della grandezza di una persona e di un pensiero. (Giorgio – ci scommetterei –mi avrebbe invitato a soprassedere ricordandomi che è «inevitabile che avvengano scandali» (Lc 17, 1b), io gli avrei risposto con la parte successiva dello stesso versetto evangelico «guai però a colui a causa del quale gli scandali avvengono» (Lc 17, 1c). … ennesima differenza di accenti, forse poco percepibile da lontano, enorme se osservata al microscopio, comunque sapida, faticosa, feconda e bella.)

La indignazione per le strumentalizzazioni cui ho appena accennato mi hanno convinto a scegliere di sottolineare questa sera temi a proposito dei quali debbo confessare di aver inseguito Giorgio per oltre 50 anni senza averlo mai neppure lontanamente raggiunto. Ciò che questa sera offrirò come contributo alla interpretazione di questo libro è  solo qualcosa del tanto del suo magistero e della sua testimonianza di cui personalmente non mi riconosco all’altezza, qualcosa che per tanti anni – sempre troppo pochi – ho provato ad apprendere con risultati purtroppo molto modesti. Di conseguenza, chi trovasse interessanti i tre spunti che sto per offrire è alle pagine di Giorgio che deve rivolgersi. Chi parla non ne è all’altezza e non può essere di ulteriore aiuto.

*

Tra i tanti spunti che potrebbero rispondere ai due criteri mi limiterò a tre soli. Come gli altri, li trovo capaci di interpellarmi e, credo, di interpellarci, capaci di offrirci la possibilità di continuare il dialogo su Giorgio e con Giorgio. Non da ultimo, capaci di riaprire i nostri occhi alla potenza discreta della scrittura, al mistero della dignitosa umiltà dello scrivere, dell’esporsi e ritrarsi scrivendo. Lo scrivere come ministero – saremo costretti a tornarci su alla fine –; ministero: vero e proprio servizio, atto, come diceva Rosmini, di carità intellettuale, del quale Giorgio ha dato bella testimonianza.

 

Innanzitutto ad intendere le pagine della Forza mite del riformismo può essere d’aiuto ricordare il senso di Giorgio per il diritto.

Ho vivissima la memoria della gioia e della lucidità con cui sin dai primissimi viaggi in treno da studenti universitari – era l’Autunno del 1977 – lui fosse in grado di sintetizzare le lezioni dei grandi maestri che aveva nella Facoltà di Giurisprudenza alla Sapienza di Roma. Ciò che prima del resto mi colpiva era la familiarità e la precisione con le quali raccontava cose appena ascoltate. Non credo che la principale spiegazione della chiarezza di quei racconti risiedesse in qualche studio giuridico che lui aveva fatto alle superiori. C’era dell’altro. C’era qualcosa che, ad esempio, in tanti avevamo intuito giocando a pallone nell’oratorio della parrocchia di San Cristoforo arbitrati da lui (che si alternava con Amedeo e Paolo). Dal suo modo di arbitrare traspariva passione per la giustizia, insofferenza per l’ingiustizia, senso lucido della relazione e della differenza tra diritto e norma, coraggio e responsabilità nell’affrontare la necessità costante di interpretare la norma affinché – come avremmo detto anni dopo e con parole diverse – (affinché) a vivere fosse il diritto.

Negli anni tremendi del terrorismo la lettura del “Manifesto” di Rossana Rossanda era indispensabile per mettere alla prova della contro-argomentazione più forte la convinzione che sul diritto non era consentito transigere neppure con coloro che si erano macchiati di crimini più efferati e che minacciavano le libertà e la repubblica. Per chi ha memoria di quei tempi terribili, può significare qualcosa il ricordo della operazione del “7 Aprile” che portò agli arresti di leader di Autonomia operaia e molto significarono i dibattiti seri e la riflessione critica per rispondere alla istanza di comporre lotta al terrorismo e presidio del diritto. Occorreva leggere La crisi dello stato piano di Toni Negri per dare forma precisa e matura alla siderale distanza da lui. Occorreva leggere Popper per capire dove Norberto Bobbio “faceva acqua”. Occorreva leggere i meravigliosi articoli su “Mondoperaio” a fine anni ’70 di un Giuliano Amato che da decenni non esiste più per dar forma alla sensazione che non vi fosse nulla di eretico né di utopistico nel considerare ormai la legge elettorale proporzionale e le preferenze una sciagura per la democrazia italiana.

Questo fortissimo senso del diritto è alla base della coerenza e della fermezza con la quale Giorgio si è sempre battuto per la divisione delle funzioni e delle carriere tra giudici e p.m. e per forme efficaci di responsabilizzazione di questi ultimi. Giorgio lo ha fatto qualunque fosse l’attore politico che in un dato momento faceva propria quella posizione. C’è questo senso del diritto nel rifiuto da parte di Giorgio di ogni pacifismo ipocrita, ideologico, salottiero o curiale. La difesa del diritto dell’aggredito è semplicemente un dovere.

Il diritto è tangenza di personale e sociale, di trascendente e storico. Il diritto è insieme mero costrutto sociale e limite di e tra ogni potere sociale affinché la persona, ogni persona, abbia salva la propria eccedenza rispetto all’ordine sociale. Il diritto abbisogna di norme (e dunque anche di leggi) e giudica ogni tipo di norma e dunque anche le leggi. Il diritto è detto dalla sentenza (iurisdictio). Di qui la passione di Giorgio per il diritto costituzionale. Di qui la repulsione radicale di Giorgio per ogni statalismo e per ogni pretesa di sovranità, perché in ogni sua versione la sovranità è sempre offesa al diritto. Di qui la passione di Giorgio per i regimi di common law e la passione di Giorgio per la nostra Costituzione perché (secondo la lezione di maestri come Mortati e Grossi) è la Costituzione che ha fatto dell’Italia una repubblica e non più uno stato (quale era ancora nel regime sabaudo, nel regime fascista, e quale l’Italia molto probabilmente sarebbe stata sarebbe continuata ad essere se nel 1946 e nel 1948 non avesse vinto De Gasperi); repubblica: sinonimo politico di poliarchia. Per questo tipo di passione per il diritto Giorgio ha allo stesso tempo amato questa Costituzione e lottato contro chi si nascondeva conservatorismo istituzionale dietro il mito e l’alibi della “Costituzione più bella del mondo”, per questo Giorgio ha immaginato con competenza e sostenuto con generosità tante iniziative di riforma costituzionale.

Se si mette a fuoco questa particolare passione di Giorgio per il diritto, è più facile comprendere una delle tante ragioni dell’amore e della gratitudine da parte di Giorgio per don Gianni (Colasanti). Attraverso lo studio delle Scritture, del Magistero, della teologia, della filosofia, della storia don Gianni mostrava che il Vangelo e la fede sono amici e sostegno del diritto e della libertà, e viceversa: perché, come la Chiesa insegnava e dovrebbe ancora insegnare, la libertà è la prima grazia ed il rispetto cristiano ed ecclesiale per il diritto della persona è tanto radicale da rimanere intatto anche di fronte alla “coscienza erronea”. Spesso ho pensato che Giorgio cogliesse più velocemente di me molto di quello che don Gianni insegnava proprio perché Giorgio, a differenza mia e di altri, non proveniva dal cosiddetto “mondo cattolico”. Non che i suoi genitori non fossero credenti e praticanti, al contrario, ma perché del cattolicesimo e della vita di Chiesa a Giorgio erano stati risparmiati tanti riti e tanti miti in sé secondari, ma presi troppo sul serio negli anni ’50, ’60 e ’70.

La strada che don Gianni ci apriva portava diritta alla scelta religiosa della Azione Cattolica del Vaticano II e per la porta principale: quella della F.U.C.I., strada illuminata dal magistero di Paolo VI. Questa strada Giorgio ha percorso senza risparmio e con convinzione, e donando convinzione.

 

In secondo luogo, avviandosi a leggere le pagine di Giorgio è utile aver presente il suo senso della misura. Giorgio aveva in misura non ordinaria dono di saper stimare correttamente le misure e quello, speculare, di sapersi dare una misura.

In una misura piuttosto rara Giorgio aveva la capacità di stimare la dimensione degli eventi, delle cose e delle loro differenze. Questo lo metteva in condizione di ordinare per priorità le emergenze e i problemi. Questa dote appariva chiaramente quando si trattava di affrontare una situazione od una teoria nuova, quando si trattava di decidere cosa leggere prima e cosa leggere dopo a proposito di una determinata materia, quando si trattava di organizzare un progetto di ricerca o di immaginare una “agenda” politica, associativa o pastorale. Lo si vedeva bene nel modo che aveva (non astratto né maniacale) di ordinare un tavolo da lavoro, nel modo che aveva di prendere appunti durante le riunioni, e poi di conservarne alcuni e di gettarne altri. Il dono di questo senso della misura si coglieva altrettanto bene persino nel modo naturalmente elegante del suo portamento o nella ricerca  della pronuncia corretta di una parola. Il senso di Giorgio per la misura si manifestava esemplarmente nel suo modo di prendere sul serio le parole, di non impiegarle a caso o di confonderne i significati, nel rifiutare sempre un uso sbrigativo ed opportunistico dei testi, abitudine pessima e profondamente immorale oggi tanto diffusa sia nella comunità ecclesiale che in quella civile.

Il saper misurare di Giorgio, e persino la sua eccezionale prontezza nel calcolo “a mente”, non accompagnavano alcuna particolare inclinazione economicistica. Esprimevano piuttosto qualcosa cui richiama l’invito evangelico a calcolare bene prima di intraprendere una qualsiasi azione (cfr. Lc 14, 28-33), a decidere consapevolmente quale peso dare a ciascun fattore senza adottare acriticamente scale di valore date per scontate e confezionate per altri scopi.

Aver presente questo tratto aiuta a comprendere il modo di Giorgio di ragionare sul presente e sul futuro, si trattasse della città di Terni o dell’Unione Europea, delle “società aperte” o della Azione cattolica e della Chiesa locale.

Questo stesso tratto aiuta a comprendere anche la passione di Giorgio per alcune manifestazioni artistiche, per l’architettura e per l’urbanistica, per la musica, per il teatro e per il cinema, nelle quali la misura viene cercata in-movimento, e per l’arte contemporanea in generale, nella quale momenti di estrema linearità si alternano a momenti nei quali la linea è affermata attraverso la sua violazione e la misura attraverso la dismisura.

La ricerca della stima di una misura può a volte rivelarsi errata. Il tentativo di darsi una misura a volte può divenire eccessivo. Tuttavia, la consapevolezza di questi insuccessi è una grazia che passa solo dal rigore con il quale la misura è ricercata. Solo chi non cerca la misura giusta può illudersi, e illudere, di essere infallibile o ineccepibile, illusione che non ha mai neppure minimamente sfiorato Giorgio.

Il libro che stasera viene presentato fa capire bene che il riformismo ha bisogno del coraggio richiesto da un elevato senso della misura e che quest’ultimo ha insostituibili radici spirituali. Qui risiede uno dei motivi della abissale distanza tra Giorgio e la maggior parte degli stili di pratica politica e di analisi politica attualmente in voga, a Terni non meno che altrove. Il senso della misura dell’alacre riformismo è radicalmente alternativo al narcisismo inconcludente e nefasto tipico tanto dei reazionari quanto dei rivoluzionari.

 

In terzo luogo credo non sia possibile comprendere il pensiero documentato da queste pagine senza aver presente il realismo di Giorgio, la sua continua ricerca di posizioni e di analisi assolutamente realistiche.

Occorre però esser chiari sul tipo di realismo di cui si deve parlare a proposito di Giorgio. Infatti, quale realismo può mai essere quello di una persona piena di passioni, di una persona lontanissima da ogni cinismo e da ogni opportunismo?

La chiave che risolve questo enigma, e che dischiude non poco del senso più profondo delle pagine che abbiamo di fronte, è offerta dalla nozione di reale che Giorgio adottava e che continuamente affinava con gli studi. Per rappresentarla adeguatamente sarebbe necessario dedicare del tempo alle opzioni teoriche, filosofiche, teologiche di Giorgio. Non potendolo fare questa sera, mi limiterò ad usare una immagine.

Se ci rappresentiamo idealmente la linea che nella nostra visione delle cose, della storia e della vita, separa reale ed irreale, nel caso di Giorgio questa linea presenta due caratteristiche molto marcate. In primo luogo è una linea netta e profonda, molto marcata. In secondo luogo è una linea che lascia il possibile nel campo del reale, non in quello dell’irreale. Se la prima caratteristica di questa linea colloca Giorgio in posizione radicalmente alternativa ad ogni utopismo, la seconda caratteristica contrappone Giorgio ad ogni cinismo. Nella idea “ricca” di reale cui lui aderiva vi è la chiave anche della competente passione di Giorgio per la sociologia, disciplina che nasce dalla coscienza che il “reale” –  nel significato ordinario del termine – è solo un caso del possibile, e dunque non perde mai il carattere di meramente contingente. A questo tipo di realismo si arriva solo se si prende sul serio il tempo, se non lo si subordina all’essere. Questo tipo di realismo è tanto impermeabile al pensiero razionalistico quanto prossimo al pensiero critico.

Se si ritiene che il reale include il possibile e nello stesso tempo che è immune da ogni infezione prodotta dalle promesse dell’impossibile, la costruzione di tattiche e di strategie può ben manifestarsi come tensione al massimo del possibile. Questa, prima don Gianni e poi Pietro Scoppola, avevano insegnato essere la differenza tra De Gasperi e Dossetti, a tutto vantaggio del primo. Non per caso, i reazionari hanno i loro migliori alleati nei massimalisti, negli utopisti e nei sedicenti rivoluzionari, mentre hanno nei riformisti i loro più temuti nemici. Del resto, nonostante i tanti socialisti rivoluzionari e comunisti in circolazione a quei tempi, fu don Luigi Sturzo ad avere l’onore di essere definito da Benito Mussolini “il mio peggior nemico”.

Tanto i reazionari quanto i massimalisti hanno seri problemi con il tempo: i primi vogliono arrestarlo, per i secondi si tratta di arrivarne alla fine.

Senza aver presente di che tipo fosse il suo realismo, non riusciremo mai a capire perché Giorgio riusciva ad essere più realista dei reazionari – la cui idea di realtà è sempre troppo povera – ed ad essere un riformista che proponeva obiettivi indigeribili ed irraggiungibili per i massimalisti, del sindacato come della politica, i quali promettono l’impossibile per proteggersi dalla sfida del possibile. Nell’idea di realtà di Giorgio, profondamente consona al mistero della creazione, della incarnazione e della resurrezione, il realismo non è freno, ma sprone ad un riformismo radicale proprio perché disincantato. Giorgio lo chiamava – l’espressione è sua – “riformismo moderno cristianamente ispirato”.

Questo non arrestarsi alla forza solo apparente dell’immediatamente presente si manifestava in modo verace nella straordinaria capacità che Giorgio aveva di giocare. Giocare non è fingere, non è prescindere dalle cose così come stanno, ma interpretarle anche altrimenti, abitarle in qualche altra loro possibilità. Quando nel 1970 arrivai nella parrocchia di San Cristoforo, Massimo, Egidio, Paolo, Sergio, Antonio, Amedeo e Giorgio mi sorpresero per la straordinaria serietà con cui giocavano e ci facevano giocare: dal più tradizionale gioco da tavolo al calcio. (Con loro si riusciva ad applicare rigorosamente il fuorigioco in un campo irregolare e non più lungo di trenta metri, nel quale giocavamo con un arbitro e persino due guardialinee.) Giocare è materialmente impossibile per chi si ferma alla sola realtà di ciò che in un certo momento ed in un certo luogo risulta presente. Egualmente, giocare è impossibile per chi vorrebbe convincerti (e forse anche convincersi) che le nuvole non sono che pietre che volano nel cielo. Scriveva Guardini: «fare un gioco davanti a Dio (…), questo costituisce il nucleo più intimo della liturgia».

Né i reazionari né i rivoluzionari sanno giocare, né sanno ridere o sorridere per le maschere cupe dietro le quali celano le rispettive paure. Né sanno ridere, perché per ridere devi essere capace di non credere che il reale così come ti appare in quel momento sia necessario o, all’opposto che non valga nulla e possa essere sempre e comunque sacrificato ad uno scopo lontano. La risata è una grande manifestazione di libertà e di gratitudine, di libertà e di gratitudine condivise. La risata è celebrazione della grazia di condividere una libertà: l’amicizia non è solo risata, ma non c’è amicizia senza risata. E Giorgio non si tratteneva certo dal ridere e dal sorridere quando se ne dava l’occasione, e non di rado era lui a crearla.

Il realismo di Giorgio non ha nulla a che vedere con gli alibi dei cinici, piuttosto responsabilità per il possibile, e di questo tipo di realismo Giorgio si serve nelle sue analisi delle vicende politiche e di quelle ecclesiali. Conviene tenerlo presente leggendo La forza mite del riformismo.

***

… tanto è stato difficile cominciare, quanto ora è difficile smettere. Tanto altro andrebbe ricordato di non meno utile a comprendere le pagine di questo libro, tanto altro oltre la passione per il diritto, il senso della misura, una certa idea di realtà e di realismo.

Ora è difficile smettere, doloroso. Non solo perché ci sarebbe altro da dire, ma perché ciò che abbiamo fatto questa sera non è stato solo parlare di Giorgio, ma anche dialogare con Giorgio. E non si tratta di una patetica suggestione, ma dell’inoperoso operare del mistero della scrittura ( … s’era detto che ci saremmo dovuti tornare).

Il mistero della scrittura, come solito suo, anche questa sera ha fatto irruzione tanto dal lato dello scrivere – scrivere è lasciar segni e ritrarsene – quanto dal lato del leggere – ascolto di pro-vocazione –. Scrittura: mistero irrompe ogni volta che un soffio investe un segno solo in apparenza inerte ed incontra un cuore che ascolta. Soffio come di un bacio. Quando un soffio obbedisce ad un segno avviene la voce, il soffio diviene significante ed il segno può essere ascoltato dal cuore.

La fatica che faccio e che, credo, facciamo a smettere rivela il mistero del segno scritto e dello scrivere. Mistero del legame realissimo tra presenza ed assenza. È sempre e solo lo spirito, il soffio, che rende vivo un gruppo sparso di segni, che li fa testo, e che con ciò pro-voca e ri-desta il tuo spirito assopito.

Il dolore dello staccarsi da un testo rivela della scrittura che essa è posta tra presenza e assenza, e che non è affatto l’assenza ad essere senza senso, ma è solo il mero segno che sta tra assenza e presenza se viene abbandonato da soffio che lo rende voce e ne fa vocazione, che facendolo suonare e risuonare genera per-sone. consente la comunicazione come relazione di presenza e assenza. Questa soglia, il segno scritto, av-venendo nella voce e nell’ascolto, si manifesta come oltrepassabile e non solo nella forma cui stiamo dando luogo, forma ancora piuttosto insoddisfacente eppur preziosa perché esperibile nella contingente condizione del secolo.

È esattamente questo ciò che cominciamo ad intuire quando avvertiamo la fatica di smettere, più simile di quanto si possa ritenere alla fatica del parto. Il mistero è ciò che questa fatica insegna, ciò che questa fatica annuncia e certamente non esaurisce. Tuttavia è mistero ascoltabile solo cedendo al dolore ed accettando di smettere, e proprio nell’accettare di smettere negando allo smettere il rango di ultima parola.

Al termine del volume è riportato uno dei tanti testi che Giorgio scrisse per “lampada ai miei passi”, titolo della serie di brevi commenti che a turno qualcuno o qualcuna della Azione Cattolica di Terni Narni Amelia regala agli altri e non solo agli altri della nostra Azione Cattolica. A commento del vangelo domenicale del 2 Maggio del 2021 (Gv 15, 1-8) Giorgio scriveva qualcosa che dà un significato preciso e ancora una volta chiaro alla fatica di smettere che stiamo avvertendo, pesante e quasi oppressiva. Qualcosa che dice il carattere contingente ancorché amaramente istruttivo di questa fatica, e di ben altre fatiche. Se leggiamo il commento di Giorgio a Gv 15, 1-8 capiamo un po’ di più quale mistero si dis-veli nella esperienza dello scrivere, del leggere e dell’ascoltare ogni parola e massimamente la Parola delle Scritture.

Scrive Giorgio: «Gesù è la sua Parola. Restare uniti a lui è restare uniti alla sua Parola. È la sfida del discepolo, è la sfida della libertà: restare uniti non è una appartenenza, non è un dato anagrafico, non è una condizione sociologica. È un cammino costante, uno sforzo di discernimento e di carità, un riconoscersi nel celebrare e nella preghiera, un restare fedeli alla storia ed al senso profondo dei suoi eventi, personali e sociali, uno scrutare i segni dei tempi. È soprattutto un restare uniti alla sua Parola che è amore, un restare uniti “nei fatti e nella verità” [verità: termine che va gustato con profondo rispetto, vista la parsimonia scrupolosissima con cui Giorgio lo usava e vi ricorreva, n.d.r]. Non affidandosi a parole che non portano frutto, ma perseverando nell’amore che porta frutto».

 

Luca Diotallevi

presidente diocesano della Azione Cattolica di Terni Narni Amelia

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