Il patto di Napoli
Per molti a sinistra, ma una sinistra di governo, la fine del secolo socialdemocratico è un dato acquisito. Una success story che non può ripetersi. Chi l’ha capito ha vinto e governato, in Europa e negli Stati Uniti, chi non l’ha capito non vince e se vince non governa. Per molti a sinistra l’uguaglianza senza aggettivazioni non è più un biglietto da visita spendibile. Come dice Branko Milanovic, in un suo bel libro recentemente tradotto da il Mulino, c’è una disuguaglianza buona e una disuguaglianza cattiva. Quella buona serve a tenere viva una società aperta, poliarchica, innovativa. Quella cattiva a garantire le rendite di posizione, a difendere gli insider (burocrazia pubblica, monopolisti dei servizi pubblici, cartelli nei mercati chiusi, e così via) e scoraggiare la competizione. La sinistra lascia libertà alla prima per eliminare la seconda. Per molti a sinistra il tax and spend non è la strada per ridurre l’ingiustizia sociale. Al contrario rigore e sostenibilità fiscale vanno a braccetto con le possibilità di avere maggiore giustizia sociale. Non si tratta di egemonia tedesca: sono i laburisti inglesi a dirlo. Spesa pubblica significa troppo spesso un’enorme partita di giro che finisce con il dare a chi ha già: l’effetto redistributivo perverso del meccanismo di finanziamento dei costi dell’università statale ne è un esempio. Per molti ma non per tutti. Certamente non per Bersani e Vendola che abbandonano la foto di Vasto per il “patto del Politeama” di Napoli, un patto dei socialisti che dice di voler mixare riformismo e radicalismo. Invece finiscono per ritrovarsi esattamente dove il PD aveva lasciato la vecchia sinistra socialdemocratica nel 2007. Anzi forse più indietro: si ritrovano dove i DS e il PdS avevano lasciato la sinistra italiana. Sperando di vincere le primarie saldano un’alleanza che ci porta indietro di 25 anni. E’ la loro storia: dicono profumi di sinistra ma l’alfabeto degli odori è cambiato.
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