Il mondo cattolico dopo Reggio Calabria

Anche io, come Stefano, torno da Reggio Calabria con qualche riflessione generale. Innanzi tutto per me è possibile un confronto con Verona 2006 e con Pisa 2007, confronto forzato (appuntamenti diversi per finalità e composizione delle delegazioni diocesane) ma utile. La mia convinzione è che Reggio Calabria possa caratterizzarsi come punto di svolta per eventuali “imprenditori ecclesiali”. E, simmetricamente, apra uno spazio enorme all’azione di “imprenditori politici”, in primo luogo tra quelli interessati a rimettere in piedi il PD e le prospettive di una credibile alternativa al centrodestra. Quattro osservazioni nel merito. Reggio Calabria ha, in larghissima maggioranza, raccolto gli spunti del documento preparatorio. Non è usuale che un’assemblea fatta di delegati diocesani e di realtà associative del mondo cattolico discuta serenamente di questioni fino all’altro ieri ideologicamente assai divisive e, in larga parte, respinte in blocco. Tanto per cominciare Reggio Calabria non accetta spiegazioni cospirative e anticapitalistiche della crisi finanziaria. Non si fida del circuito banca e finanza ma sembra cominciare a smettere di considerare il capitalismo finanziario un male strutturale dell’economia. E prende le distanze da spiegazioni strampalate e ideologiche della crisi del 2008, quelle che finiscono con il dare la colpa della crisi al relativismo culturale del nostro mondo globalizzato. Reggio Calabria, seguendo l’evoluzione più recente del magistero della dottrina sociale della Chiesa, fa propria l’idea del mercato come strumento più efficace per allocare le risorse e rispondere ai bisogni. Un mercato che, naturalmente, assume la forma di istituzione, con le sue regole, le sue norme, le sue routine. Reggio Calabria, in terzo luogo, fa propria l’idea della funzione parziale (e forse anche secondaria, per lo meno in alcuni settori della vita sociale) della politica nelle società complesse. Fa propria cioè l’idea della poliarchia come assetto della società nel quale non vi è primato di nessuna funzione sociale, nel quale la globalizzazione non è il pericoloso affermarsi del dominio dell’economia sulla politica ma il proficuo sviluppo del processo di differenziazione sociale, nella quale il bene comune è in mano a tutte le sfere sociali, economica, politica, religiosa, scientifica. Sta finendo l’egemonia del dossettismo e di una certa versione della cultura politica cattolico democratica tra i “quadri dirigenti” del mondo cattolico organizzato? E’ presto per sbilanciarsi anche se molti sono i segnali che vanno in questa direzione. Di fatto una serie di questioni sensibili non suscitano più chiusure ideologiche. E’ certo, per esempio, il venir meno di questa egemonia rispetto alle rigide reazioni dell’assemblea del convegno di Verona alla critica del pensiero cattolico democratico lì accennata. Oppure rispetto all’impianto sostanzialmente anti capitalista delle settimane di Pisa. C’è anche un cambiamento generazionale in corso e, con tutta probabilità, i trentenni che cominciano ad occupare posizioni di responsabilità nel mondo ecclesiale vedono le cose con maggiore pragmatismo e non hanno paura di confrontarsi, anche per arrivare a criticarle, con soluzioni di svolta. Penso, ad esempio, al cambiamento di atteggiamento nei confronti della flessibilità del mercato del lavoro, una prospettiva che non è più un tabù, o al pragmatismo critico nei confronti del welfare all’italiana, quasi quindici anni dopo quel rapporto Onofri sulla spesa pubblica che venne visto dalla totalità delle élite del mondo cattolico come un cedimento alla cultura liberistica, e anche per questo accantonato dal primo governo Prodi. Sembra aprirsi una stagione di nuove opportunità. Agli imprenditori ecclesiali e politici il compito di approfittarne.

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