Il lavoro come ideologia

Il PD vive una stabile condizione di strabismo. Da un lato si è consolidata al suo interno l’egemonia neo-socialdemocratica che, al fondo, appare come nulla di più che la riproposizione aggiornata di una variante di keynesismo statalista. Dall’altro, visto dalla sponda del governo Monti, è costretto ad abbracciare qualche dose, anche se non certo massiccia, del liberalismo riformista che Fassina etichetta come imprescindibile ma inadeguato. Tuttavia se Monti non riesce a rappresentare un esempio a tutto tondo di quel liberalismo riformista, è indiscutibile che l’orientamento programmatico del gruppo dirigente alla guida del PD è oggi in mano ai neo-socialdemocratici. Fassina, nel bene e nel male, si fa carico di interpretare e dare consistenza anche teorica a questo orientamento. E nel farlo miscela molti ingredienti: la centralità etica del lavoro che si salda a una presunta filosofia anticapitalista della dottrina sociale della Chiesa; una riscoperta del tema delle classi medie non priva di un ambiguo ancoraggio economicistico; l’anteriorità degli interessi sociali rispetto alle dinamiche politiche, per cui l’elettorato lungi dal muoversi calcolando (anche in modo semplificato e ricorrendo a quelle che i politologi chiamano scorciatoie cognitive) le caratteristiche dell’offerta politica è invece ben piantato nel suo retroterra di appartenenza sociale sul quale costruire le fondamenta dell’edificio politico personale e collettivo. Il PD si trova quindi nella condizione di sostenere una (qualche) politica liberale senza dire di farlo con convinzione, anzi dicendo che il liberalismo riformista non aiuta. Ma a guardar bene le cose non si tratta solo di uno strabismo: fare politiche e dire che quelle politiche non andrebbero fatte. Si tratta anche di miopia: il PD poggia il suo giudizio sulle politiche di liberalismo riformista su una serie di presupposti assai deboli. Cominciamo dal lavorismo. Qui non è necessario scomodare l’esegesi della dottrina sociale della Chiesa, che per altro negli ultimi decenni ha messo in piedi un’architettura teorica assai lontana dal lavorismo, pur rivalutando la dimensione soggettiva e personalistica del lavoro rispetto a quella oggettiva e strutturale di tanto pensiero sociale della sinistra socialdemocratica. Basta invece leggere con attenzione la Costituzione italiana e interpretare correttamente, cioè eliminando letture ideologizzate, i suoi principi fondamentali. Al centro non c’è il lavoro, dipendente o subordinato che sia, come parte sulla quale fondare l’intero edificio costituzionale quanto invece l’insieme delle modalità con le quali i cittadini contribuiscono alla costruzione dei rapporti sociali. E lo fanno adempiendo ad un dovere dotato di un suo rilievo anche giuridico che si estende ad ogni attività che contribuisca al miglioramento materiale e simbolico della collettività: il lavoratore subordinato come quello autonomo, il professionista singolo o associato come l’imprenditore, e così via, anche oltre il confine del lavoro organizzato oggetto di uno scambio di mercato. Il lavoro non è insomma il fondamento fondante della Repubblica che trova il suo perno, al contrario, nella capacità di tutte le sfere sociali di includere l’insieme dei cittadini e tutti coloro che, anche fuori di questo perimetro, ne incontrano prestazioni e funzioni.  Il punto è che il PD anche su questo terreno sembra applicare la regola del fare senza dire: pratica una politica ispirata al lavoro come ideologia, per riprendere il titolo di un vecchio libro di Accornero, ma dice di voler fare una politica riferita alla “persona che lavora”. Al di là di dispute dottrinali e filosofiche, resta che questo orientamento del PD si definisce sulla base di una lettura semplificata e per certi versi insufficiente della realtà sociale delle democrazie avanzate. L’identificazione delle classi medie e del loro destino è ad esempio molto più radicata nei meccanismi redistributivi, spesso perversi, del welfare di quanto non lo sia nella dinamica del solo mercato del lavoro. L’insieme degli interessi si aggrega e disaggrega in modo molto più complesso, non secondo linee di frattura dicotomiche, spesso finendo con il contrapporre un intero mondo di protetti (da prestazioni del welfare come da regolamentazioni) da quello dei non protetti, costretti a fare i conti con le regole del mercato e della competizione. Se dunque la stratificazione sociale ha queste molteplici determinanti, ancora una volta non è ripartendo dalla presunta centralità dell’asimmetria tra chi domanda e chi offre lavoro che si può giungere a una chiave di lettura capace di orientare con successo una pratica politica. Ma il punto meno convincente del lavorismo socialdemocratico del PD emerge a proposito del modello di partito e della conseguente strategia elettorale. A questo proposito sembra quasi di poter dire che questa costruzione politica finisca con l’ignorare venti anni di analisi sociale, non solo italiana. L’ossessione per il fondamento sociale, il lavoro subordinato come luogo principale della dinamica sociale, il lavoro come centro della dinamica delle classi medie, accompagnano quello che è il vero bersaglio del lavorismo socialdemocratico, l’idea del partito a vocazione maggioritaria di tipo essenzialmente elettorale. Un partito che il lavorismo prende di mira perché privo di un diretto ancoraggio sociale, fondato sulla sabbia dell’elettore mediano e non sulla roccia degli interessi sociali, vittima in sostanza dell’illusione dottrinaria e mediatica dell’elettore come consumatore. Peccato che il nostro paese, come molte democrazie avanzate, mostri il venir meno non solo dei partiti come organizzazioni solide, sia nel senso della densità organizzativa che nel senso della base sociale, ma di ogni forma di rapporto univoco tra partiti e gruppi sociali. Partiti e basi sociali sono da tempo fenomeni dispersi, sovrapposti, intrecciati, in qualche misura indipendenti. Il voto di classe ha perso ogni significato mentre i patti elettorali che legano temporaneamente partiti e gruppi sociali costituiscono il nuovo parametro di riferimento (Pisati). Il successo della Lega non era da leggersi come esito diretto dell’insediamento sociale di un partito pesante, quanto piuttosto come capacità di comporre un mix di elettorato di protesta e di opinione, pronto a muoversi sulla base delle caratteristiche dell’offerta politica, al di là del modesto radicamento paesano e valligiano (Corbetta). Tutto il comportamento elettorale degli italiani negli ultimi 40 anni deve essere letto come un gigantesco spostamento dalle sue determinanti sociali a quelle più propriamente politiche, cioè ancora una volta alle caratteristiche dell’offerta e non a quelle sociali della domanda. La scelta dell’elettore è orientata al partito, al programma, al comportamento del leader, sì, perché no, anche alle sue capacità mediatiche, piuttosto che dall’appartenenza sociale (Bellucci e Segatti). Le elezioni si vincono non badando in prima battuta a un ormai strutturalmente labile insediamento sociale quanto andando a conquistare l’elettorato meno coinvolto e più permeabile alle strategie elettorali (De Sio). Il lavorismo socialdemocratico non sembra quindi trovare alcun ancoraggio: né nella dottrina sociale della Chiesa, né nella dinamica delle classi e dei ceti sociali, né nel comportamento politico degli italiani. E’ una convinzione che, tra le altre, aveva ispirato la nascita del PD. Ora il PD torna indietro, nonostante Monti – in piccola parte – lo costringa a fare cose diverse. E torna talmente indietro che viene da chiedersi a cosa servano i liberali riformisti nel PD e in ultima analisi il PD stesso.

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