Il fortino dell’ideologia e della paura

Claudia Mancina sul Mattino sulla riforma della scuola Chi tocca la scuola, nel nostro bel Paese, va incontro a guai certi. Forse Renzi, nel lanciare il suo impegno più blairiano, non si aspettava una simile reazione, che non è, questa volta, solo del mondo sindacale. E' una gran parte del mondo della scuola - insegnanti, ma anche famiglie e ovviamente studenti, da decenni consegnati a un pensiero politico elementare e sterile - che si ribella alla riforma proposta dal governo. Gli slogan sono vecchi e ripetitivi: no alla valutazione, no al preside manager, no alla scuola azienda... E, sopra tutto questo, no all'attacco alla scuola pubblica. Il tempo della scuola sembra essersi fermato al momento in cui Luigi Berlinguer propose una differenziazione delle carriere dei docenti. Ci rimise il ministero; e ogni ambizione di riforma si arenò. Oggi Renzi ha ripreso quel percorso, con una proposta che affronta alcuni nodi ineludibili per rinnovare la nostra scuola. Vediamo che cosa corrisponde nella realtà a quei vieti slogan. La scuola azienda: in realtà si tratta di dare alle scuole la capacità di progettare veramente la loro attività, chiamando gli insegnanti di cui ritengono di avere bisogno e aprendosi a un rapporto col mondo esterno, attraverso attività pomeridiane e alleanze col mondo del lavoro. Perché questo modello di scuola autonoma, presente in tanti paesi europei, viene così demonizzata? Da parte sindacale c'è il riflesso di tutela di un modello centralistico, che appare più egualitario, più garantista rispetto alla fasce più deboli della popolazione. La scuola, si dice, è il più importante ascensore sociale; dev'essere pubblica e saldamente in mano dello stato. Peccato che le statistiche ci dicano che la dispersione scolastica, cioè gli abbandoni della scuola, siano in numero molto elevato (quasi due milioni negli ultimi dieci anni), certamente molto più elevato che negli altri Paesi a noi affini. Cosa di cui, tra l'altro, si dovrebbe tener conto quando si parla di disoccupazione giovanile: da noi è più alta anche perchè molti ragazzi sotto i diciannove anni non vanno a scuola. Difendere così com'è una scuola che non riesce a evitare gli abbandoni è il contrario di ciò che dovrebbe fare chi si preoccupa dell'eguaglianza. Ma qui c'è un conflitto più largo e più profondo: quello tra una gestione rigidamente statalista delle istituzioni pubbliche e una gestione aperta all'iniziativa, individuale e di singole comunità, e alla disseminazione di esperienze in stretta relazione col territorio e con le sue diverse esigenze. In questa seconda modalità convergono una visione liberale e, nel nostro paese, una cattolica. Ai tempi di L. Berlinguer si combatté una dura battaglia per rinnovare in tal senso la cultura politica della sinistra; la sconfitta di questa battaglia è tra i motivi dell'attuale arretramento culturale dell'opinione di sinistra. Pensare che si attacchi la scuola pubblica se si dà spazio a finanziamenti privati e a un maggiore coinvolgimento, anche economico, delle famiglie è semplicemente un pregiudizio. Si tratta di pensare ogni scuola non come il terminale passivo delle circolari burocratiche, ma come una vera comunità, libera e responsabile del suo progetto. In un quadro come questo non basta seguire le procedure ministeriali: ci vuole una capacità decisionale e necessariamente il ruolo del preside aumenta. E' risibile però parlare di uomo solo al comando: il preside resterà affiancato in tutte le sue scelte dal Consiglio di istituto. Anche in questo caso è la diffidenza verso la dimensione della decisione che muove le obiezioni. Il punto più caldo, tuttavia, quello che sta riempiendo le piazze, è ancora una volta quello della valutazione. Il ddl ha già abbandonato la sua ispirazione originaria, l'audace idea di sostituire la valutazione del merito dei docenti agli scatti di anzianità. Un'idea che sarebbe certamente difficile da realizzare, ma cambierebbe davvero, in profondità, la professione docente e con essa la scuola e il suo rapporto con la società. Di quella originaria ispirazione è rimasto soltanto un premio ai docenti più meritevoli. Basta questo per far gridare allo scandalo. Gli insegnanti italiani non vogliono essere valutati. Il merito è per loro una parolaccia. Questa però è una chiusura corporativa che non farà bene alla loro causa. Bisogna ricordare che per i docenti universitari la valutazione è ormai una realtà quotidiana? La valutazione rientra nel disegno generale dell'autonomia perché serve per mettere le scuole in condizioni di autoregolarsi e di riempire le proprie lacune: è un essenziale fattore di feedback. Anche per questo la decisione di boicottare i test Invalsi, così come la minaccia di bloccare gli scrutini, è un atto che, prima di essere irresponsabile verso gli studenti, umilia la stessa professionalità degli insegnanti.

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