I saggi insegnano al PD che questa costituzione non è la più bella del mondo (su Il Foglio di oggi 28.6.2013)

Il lavoro della commissione incaricata di avviare il processo di riforma istituzionale mostra diversi profili di interesse. Non solo nel merito delle cose ma, per così dire, anche nell’approccio e nella cultura cha saprà esprimere. In altre parole si può pensare che costituisca un banco di prova per l’intera cultura costituzionalistica italiana, se consideriamo che i giuristi egemonizzano largamente la composizione della commissione. Solo tre le eccezioni, se non sbaglio: una filosofa, uno scienziato della politica e un economista. Non è detto che sia un bene, anzi per le ragioni che dirò dopo è probabile che questa condizione sia anche il segno di un limite della cultura giuridica, e tuttavia è così. La sfida è significativa: cosa è in grado di dire, oltre il piano stretto delle tecnicalità, la cultura giuridica costituzionalistica rispetto alle criticità di questa fase della storia costituzionale del paese? Dal punto di vista della riflessone giuridica sull’esperienza giuridica stessa il dibattito pubblico appare esile. Tramontati i grandi duelli dottrinali (difensori del formalismo giuridico contro antiformalisti, difensori della purezza del discorso giuridico contro istituzionalisti) il campo sembra occupato piuttosto da posizionamenti di principio in ordine al giudizio sulla legittimità delle riforme costituzionali. In sostanza sulla possibilità di intervenire sulle disposizioni della costituzione senza minarne la stabilità. Ne è un esempio, a dire il vero assai radicale, il perentorio “questo [il percorso proposto dal governo Letta-Alfano] è un percorso incompatibile con l’architettura democratica della Repubblica e con i canoni fondamentali della costituzione” pronunciato da Massimo Villone su costituzionalismo.it in questi giorni. Dal più ampio punto di vista storico critico, invece, il quadro si fa più confuso. Qualcuno parla anche di anomia costituzionale come di una pericolosa malattia che ha colpito la cultura costituzionalistica proprio nel momento in cui la costituzione subiva un attacco senza precedenti, sulla scia di spinte sommarie e populistiche. I costituzionalisti, cultori di una disciplina evaporata, non avrebbero trovato la forza di contrastare l’indebolimento normativo della costituzione stessa. Tra anomia come perdita del rilievo normativo della costituzione, e afasia come debolezza della voce pubblica dei costituzionalisti, a me sembra che non si individui con la giusta misura il punto preciso in discussione. E’ difficile dimenticare il contributo della cultura dei costituzionalisti alla storia politico istituzionale del paese. Contributo essenziale nei gloriosi trenta che vanno dalla nascita della repubblica alla metà degli anni settanta, così come nei decenni precedenti a cavallo tra i due secoli e negli anni trenta. Il punto da sottolineare è che si è trattato di un contributo tanto più rilevante quanto più quella cultura si è aperta alle influenze della comparazione con altri sistemi giuridici e si è lasciata contagiare da altri approcci scientifici: dalla sociologia alla scienza politica, dall’economia ad altre discipline. L’emblema di questo processo è probabilmente il contributo di Leopoldo Elia sulle forme di governo nel 1970. Non si capisce la stessa formalità della costituzione se non la si aggancia, anche e soprattutto attraverso la comparazione, alla materialità delle forze che la fanno vivere. In quel caso la forma di governo si intrecciava con l’assetto del sistema di partito. E’ altrettanto difficile negare che la cultura giuridica costituzionalistica abbia assunto, a partire dagli anni ottanta, una posizione particolarmente ostile al tema della lettura riformista della transizione del sistema politico italiano. Un’ostilità che, per un verso, si è espressa nella ricerca dello specialismo e quindi nell’incapacità di sintesi e di prospettiva. E per l’altro ha eretto barriere alla contaminazione con la scienza politica, nascondendosi sotto la critica troppo scontata a un uso affrettato che si andava facendo del concetto di costituzione materiale. L’atteggiamento psicologicamente e culturalmente conservatore è così dilagato. Si è storto il naso di fronte all’analisi economica del diritto pubblico e costituzionale; denunciato la globalizzazione giuridica come pericoloso nuovo sovrano, una sorta di antisovrano antinazionale; temuta in vari modi la distinzione tra diritto e costituzione; innalzata la vecchia bandiera della laicità contro le contaminazioni tra diritto e morale; minimizzato il carattere espansivo del principio della possibilità per i privati, anche market, di svolgere funzioni di interesse generale (la poliarchia sociale); trasformato l’art.11 in un inno al pacifismo assoluto; ripreso l’irrigidimento caratteristico di certo azionismo e di certo dossettismo, trasformati in ideologia costituzionale spesso anche contro le posizioni evolute degli stessi maestri (Dossetti, ad esempio, a proposito del garantismo eccessivo della seconda parte della costituzione). Un’ostilità che ha finito con il difendere partiti che non esistono più contro la temuta personalizzazione della politica, uno stato che non esiste più contro ogni sorta di presunta privatizzazione, un diritto che non esiste più contro le molte trappole del diritto globale. L’emblema di questa tendenza resistente è forse il dibattito sul mito delle riforme costituzionali lanciato una decina di anni fa, dibattito al quale si contrappose un libro schiettamente riformista, “Come chiudere la transizione”, non a caso curato da un scienziato della politica e da un costituzionalista esperto di diritto comparato. La linea di frattura principale continua dunque a passare tra chi, un po’ arroccato nella difesa dell’eccezionalismo italiano, guarda tutto con gli occhi dell’esperienza interna e chi, al contrario, continua a praticare la strada della comparazione e si fa guidare dalla ricerca dei concetti comuni, delle regolarità e delle convergenze. Non a caso tra i primi prevalgono certe asperità dell’azionismo e non i liberali di cultura anglosassone, i difensori della tradizione comunista della sinistra invece dei tessitori dei legami col socialismo europeo, i dossettiani piuttosto che i cattolici liberali. Si tratta allora di capire se oggi la cultura costituzionalistica è attestata sulle posizioni di chi pensa che “riforme è una parola tanto generica quanto colma di appeal retorico e però, se applicato alla costituzione, vuota di contenuto” (Onida) o su quelle di chi pensa che occorre riformare il “vero cuore del sistema di governo, il circuito corpo elettorale – elezione dei rappresentanti – investitura dell’esecutivo (Barbera–Fusaro). Dal 1953 infatti, lo diceva Livio Paladin non certo sospettabile di retorica riformistica, il Presidente del Consiglio italiano non è più in condizione di guidare un governo ma si deve limitare a fare da mediatore. Il che non è un bene per nessuno. La cultura costituzionalistica italiana è dunque ad un appuntamento fondamentale con la storia del paese. Per mostrarsi all’altezza della sfida deve con tutta probabilità fari conti con un paio di nodi non sciolti. Qual è il mito con il quale fare criticamente i conti? Il mito della costituzione o il mito delle riforme costituzionali? Qual è il rapporto tra diritto e costituzione? La costituzione materiale, punto di incontro tra diritto e storia, è un concetto attuale o un arnese troppo pericoloso da maneggiare e quindi da lasciare nel cassetto? E insieme alla cultura costituzionalistica è la sinistra italiana a dover fare i conti con il tema della riforma della costituzione. In questi anni abbiamo assistito a un’evidente incontro tra speculari pulsioni conservatrici, quella della maggioranza dei costituzionalisti e quelle della maggioranza della sinistra italiana. Per quanto animate da nobili intenzioni si è trattato di pulsioni fatali per l’evoluzione del sistema politico italiano e per la capacità di costruire in Italia una normale sinistra di governo. Non solo. Le pulsioni conservatrici hanno finito con il dimenticare che una riforma incisiva degli eccessi ipergarantistici della seconda parte della costituzione serve a rendere più efficaci gli strumenti giuridici necessari per garantire e tutelare l’insieme dei principi e delle regole della prima parte, quella prima parte che costituisce patrimonio acquisito dell’identità nazionale del paese. Non è certo una sfida meno rilevante di quella cui sono chiamati i costituzionalisti: anzi è probabile che sia la sfida principale oggi per il PD.      

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