Egemonia senza consenso e populismo democratico, di Giorgio Armillei

Come suggerisce Giorgio Tonini all’inizio di un suo lungo
articolo di qualche giorno fa https://bit.ly/30rOxzk dedicato al paradosso del riformismo
democratico in Italia - una “egemonia senza consenso” lo definisce - l’esito
della tornata elettorale e referendaria non ha granché rilievo per uno scavo
approfondito di questo paradosso.
Salvini e la sua Lega sono i grandi sconfitti di questa
fase, come anche la stampa europea dal Times a Le Figaro non ha mancato di sottolineare.
Sconfitti da una linea ondivaga sull’emergenza covid; dall’alleanza con le
leadership che altrove hanno tentato di minimizzare per fini elettoralistici la
diffusione della pandemia mettendo in mostra soltanto spregiudicatezza e
approssimazione; dalla capacità decisionale dell’Unione europea che ha avuto collateralmente
gioco facile nello smascherare i limiti della pericolosa ostinazione di
sovranismi e nazionalismi. Limiti che sono propri di ogni destra e ogni
sinistra preda della sindrome populista, in Italia come negli altri paesi
dell’Unione.
Tuttavia le elezioni pongono una domanda: chi e cosa
prende il posto dell’ondata leghista? Il PD di Zingaretti “egemone senza
consenso” che quindi più che prendere il posto si candida a farlo? O qualcosa
di diverso dal PD di Zingaretti? Qualcosa di diverso, sgombriamo subito il
campo dagli equivoci, dall’inutile esperienza scissionistica di Renzi come dall’aggregazione
a vocazione minoritaria di Calenda.
Per rispondere a queste domande Tonini allestisce una
delle sue ricostruzioni che guardano alla lunga durata, fuori e oltre gli
eventi. Lo fa in molti modi e con molti spunti. Qui ne prendiamo in esame tre
che aprono una serie di interrogativi: una riscoperta del populismo democratico
che sarebbe benzina necessaria per ogni motore riformista; una spiegazione
prevalentemente economica dell’ondata populista; una lettura molto “veltroniana”
delle rotte del riformismo democratico in Italia. Andiamo per ordine.
Il progressismo populista dei democratici americani è la
prima delle opzioni di Tonini. Non si tratta ovviamente di fare un banale copia
incolla e di mettere l’alleanza tra PD e M5s al posto delle alleanze che
aprirono negli USA la stagione delle riforme tra la fine dell’800 e l’inizio
del 900. Si tratta invece di imitare la combinazione tra la capacità di
elaborare solide strategie di riforma e la capacità di costruire attorno ad
esse un consenso “dal basso, bottom-up, partecipato, aperto, competitivo,
anti-oligarchico” dice Tonini. Insomma, serve un partito moderato di sinistra in
grado catturare il consenso anche di quelli che non sono né moderati né di
sinistra, realizzando politiche di miglioramento della condizione dei tanti e
non dei pochi.
Andrebbe tutto bene se non fosse che l’età che si apre tra
fine ‘800 e inizio ‘900 presenta diversi aspetti che restano in ombra nello
schema di Tonini. Innanzi tutto, è un’età fortemente ambigua, nella quale la
richiesta di rinnovamento populista è fatta anche e soprattutto di resistenza
all’innovazione sociale e al cambiamento economico, è cioè una risposta
regressiva e spesso schiettamente conservatrice allo spiazzamento e allo
smarrimento prodotto del rapidissimo processo di industrializzazione che
stravolge i miti fondativi del modello americano. Il populismo americano è una
“corrente sotterranea di risentimenti provinciali, di tendenze alla ribellione
e al sospetto di strati popolari e democratici, e infine di nativismo” diceva alla
fine degli anni cinquanta Hofstadter lo storico dell’età delle riforme nel suo
libro che va da Bryan a FDR. Su cui esercitò la sua egemonia un gruppo
dirigente cementato dalla sofferenza per una perdita di status, non certo per
insoddisfazione economica.
In secondo luogo l'età populista genera un movimento
progressista che prende a bersaglio le oligarchie politiche e i partiti,
predicando un loro ridimensionamento e spostando la capacità di regolazione dei
conflitti, anche di quelli distributivi, su autorità indipendenti, in qualche
modo responsabilizzate in via diretta o indiretta ma collocate fuori del
circuito partisan. Insomma, il riformismo di inizio Novecento negli Stati Uniti
va “oltre la politica”. Dai rischi dell’avvitamento oligarchico e della controspinta
populista si esce con meno politica e non con più politica, si esce con
l’autonomia dell’amministrazione e della regolazione pubblica indipendente per
tenere a bada la carica critica del populismo. Si punta sulla tecnica
amministrativa e non sulla mobilitazione dei sentimenti e delle passioni. Si
tenta insomma la ricomposizione amministrativa dei conflitti attraverso lo
strumento delle autorità indipendenti. Benché se ne possano studiare
connessioni e matrici, l’età populista e progressista non è la versione
anticipata del New Deal democratico degli anni Trenta.
La seconda opzione di Tonini ha a che fare con le
spiegazioni dei fenomeni e non con i modelli ai quali ispirarsi per governare i
fenomeni. L’esplosione nazionalista e sovranista scaturisce da un ragionamento fatto
con il portafoglio. Gli italiani si sono stancati di fare sacrifici per
risanare una situazione di finanza pubblica di cui non sono responsabili e per
la quale hanno abbondantemente pagato, senza per altro aver visto ridursi
marginalità, precarietà e povertà. Il nesso è dunque chiaro: è la sofferenza economica
ad aver generato l’ondata populista. Tuttavia, come sappiamo è assai ampio il
dibattito sulla plausibilità di questo nesso, quanto meno sulla sua componente
di sola prevalenza, e sulle sue conseguenze in termini di costruzione di una
strategia politica. Spiegazioni diverse puntano sui sistemi di credenze, sugli
atteggiamenti e lasciano in secondo piano, pur non mettendole da parte, le
determinanti economiche. È il backlash della globalizzazione, dell’apertura
delle società liberali, del trionfo delle città, della “rivoluzione silenziosa”
ad aver armato il populismo: i somewhere contro gli anywhere. Un po' come alla
fine dell’800 negli Stati Uniti l’industrializzazione aveva generato la rivolta
populista, non tanto e in primo luogo per l’impoverimento economico quanto per
la sfida di un nuovo modello di società che stava rapidamente erodendo status e
certezze della tradizione. E rispetto a questo contraccolpo non c’è spiegazione
economica che tenga. Anzi quando si tenta di mediare politicamente, quando si
prova a “prendere sul serio la protesta populista” non si fa che entrare in un
circolo vizioso. Le chiusure nazionaliste e sovraniste sono infatti il maggiore
ostacolo alla crescita economica che sola può generare aumento delle
opportunità e riduzione delle marginalità.
La terza è l’opzione “veltroniana” di Tonini. Dal “di
lotta e di governo” berlingueriano, passando per Macaluso e Reichlin con la
tappa francese di Mitterrand, il punto di partenza e di arrivo è comunque quella
storia lì. Veltroni ha certo espresso la forza di una grande scelta politica:
finalizzare la trasformazione istituzionale del paese e i cambiamenti della sinistra
alla nascita del PD, il “nuovo partito” e non il “partito nuovo” della relazione
Vassallo nel seminario di Orvieto del 2006. Allo stesso tempo ne ha però innescato
anche il suo insabbiamento non riuscendo a svincolarsi dal vecchio mito
dell’unità del partito inscritta nel dna della sua componente PCI-PDS-DS. Primarie
costruite sulla cooptazione anziché sulla competizione, e quindi primarie dal
risultato scontato, ne furono un esempio. Il nuovo partito di Vassallo svanì presto
e probabilmente riemerse solo nel 2012 nel confronto Renzi Bersani, momento di
contendibilità e competizione. Quel mito riemerge oggi, con altre parole
d’ordine, nell’ennesimo riproporsi di una divisione del lavoro tra moderati e
sinistra che oltre ad essere del tutto inadeguata al cambiamento del sistema
delle fratture politiche è esattamente il contrario della ragione sociale del
PD nuovo partito e ne demolisce uno dei suoi pilastri: la contendibilità che
significa serrata competizione interna garantita da una robusta rete di
protezione fatta del reciproco riconoscimento. Insomma, l’unità interna si fa
dividendosi e contandosi e non intruppandosi in alleanze senza competitor. E si
fa non per appaltare a improbabili moderati la conquista del presunto voto
moderato.
Per concludere: l’irrequieta domanda populista va disinnescata
e non chiamata a confronto. La frattura economica tra ricchi e poveri non
spiega l’ondata populista. Il veltronismo ha varato il PD di Orvieto 2006 ma
l’ha anche velocemente abbandonato. E allora? L’iniezione di populismo
democratico non risolve il paradosso dell’egemonia senza consenso. Resta in
parte impigliata in uno schema destra vs sinistra nel quale ciò che alla fine
conta è la capacità di ascolto delle leadership: una soluzione che apparre un
po' volontaristica.
L’asse destra sinistra infatti non si è momentaneamente
messo da parte in attesa di riespandere il suo potere ordinatore. Tony Blair lo
diceva già nel 2007: isolazionismo e protezionismo, oggi possiamo dire
sovranismo e populismo, attraversano trasversalmente la destra e la sinistra
disegnando una frattura gerarchicamente dominante che non cancella l’altra ma
in qualche modo la sottomette. Il PD di cui si ha bisogno allora è un partito
che usando il modello di Orvieto 2006 ne aggiorni sfumature e contenuti di
policy in vista del 2023. Una leadership per far questo oggi non c’è. O se c’è
è numericamente debole, il che è un altro modo per dire che non c’è. Occorre dunque
partire da qui ma anche il Mitterrand di Epinay evocato da Tonini partiva dal
5%. Certo, aveva le istituzioni della V repubblica dalla sua parte anche se inizialmente
le rinnegava. Come le aveva Macron nel 2017 che al contrario ne è stato sempre
un grande sostenitore. Serve allora immaginare e costruire gradualmente lungo i
prossimi anni di quella che possiamo chiamare fase di “protezione
costituzionale”, un’architettura istituzionale per una democrazia governante, a
partire dalla riforma del numero dei parlamentari. Su questo vanno fabbricate
alleanze.
Il momento non è maturo per chiudere in poco tempo
questo processo. Di questa “protezione costituzionale” abbiamo bisogno, nel suo
intreccio interno ed europeo, lungo la linea dell’europeizzazione della
politica nazionale garantita dal “correttivo presidenziale” del nostro attuale
sistema costituzionale. Al momento si tratta di un dato non superabile e che
sarà confermato nel 2022. Ma in fondo al tunnel non c’è una cura populista
ancorché democratica all’egemonia senza consenso del PD. Né basta prendere le
distanze, anche se è necessario farlo e Tonini fa benissimo a farlo, dalla
vecchia idea del centro sinistra con il trattino che ancora circola nel PD come
se non ne fosse evidente la natura eversiva rispetto al PD “nuovo partito”.
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