Centosessanta, di Luciano Iannaccone

Con la legge 17 marzo 1861 n.4671, Vittorio Emanuele II assumeva per sé e per i propri successori il titolo di Re d’Italia. Dopo Villafranca ed i moti e i plebisciti di Toscana, Emilia e Romagne, l’impresa dei Mille con i plebisciti e Teano, il nuovo parlamento italiano eletto il 27 gennaio 1861 rappresentava tutte le regioni ad esclusione del Lazio e del Triveneto.

Il 14 marzo fu discusso e approvato alla Camera il progetto di legge già approvato dal Senato  che dava vita al Regno d’Italia. Il relatore Giovanni Battista Giorgini disse: “… la commissione unanime confida che sarà veramente un grido di entusiasmo convertito in legge. Ci sono delle oasi nei deserti della storia; ci sono nella vita delle nazioni dei momenti solenni che potrebbero chiamarsi la poesia della storia… Noi traversiamo una di quelle oasi, noi siamo in uno di questi momenti.. Qui finalmente l’aspettata fra le nazioni si levi e dica: Io sono l’Italia”.

 

 Risulta facile elencare circostanze ed eventi che sembrano render lontano dal nostro oggi quel giorno di centosessant’anni fa: dalla limitata rappresentatività di un parlamento eletto da 239.583 elettori su appena 418.696 aventi diritto ai gravi demeriti di casa Savoia nella prima metà del secolo scorso, da due guerre mondiali ed una dittatura ventennale alla proclamazione della Repubblica ed alla volontà di rifondare lo Stato su nuove basi. Eppure, se vogliamo dare all’idea di Patria un contenuto storico ed oggettivo, quel giorno segna la nostra nascita di nazione unita, libera ed indipendente. Per quel parlamento e per quegli uomini si compiva la “più bella impresa dei tempi moderni”, l’ “impresa più gloriosa e più nobile di quanto siensi tentate mai” e cioè “costituire un’Italia grande, forte e gloriosa, quale l’abbiamo sognata fin dai nostri giovani anni”.

Si realizzava non in una delle varie forme federali, che erano inizialmente sembrate quelle praticabili ed auspicabili, ma in modo unitario e centralistico, che le circostanze dovevano obbligare in forme più rigide di quelle a cui Cavour da subito avrebbe voluto aprire.

 

Nel 2016 trovai Vienna tappezzata di manifesti, che ricordavano in modo non rituale il centesimo anniversario della scomparsa dell’imperatore Francesco Giuseppe. Non ricordo nulla di simile a quella visibile empatia nelle nostre rituali celebrazioni nazionali di eventi antecedenti alla resistenza ed alla  Repubblica, ed in particolare del risorgimento italiano.

Eppure l’unità italiana è uno dei grandi eventi dell’ottocento europeo dopo la restaurazione, uno dei due tentativi riusciti di costituzione di un nuovo Stato nazionale, assieme a quello, di maggior peso, della Germania. Quest’ultimo reso possibile soprattutto dai “grossi battaglioni” prussiani oltreché dall’abilità di  Bismark, mentre nella nostra penisola ebbe un ruolo decisivo la frenetica e geniale iniziativa politica di Cavour. Con essa l’incrollabile fede unitaria di Mazzini e l’ardimento generoso di Garibaldi trovarono un esito insperato, soprattutto dopo Novara.

Piace citare il ricordo di Cavour del 26 giugno 1861 nel parlamento italiano da parte di Giuseppe Ferrari, federalista e quindi suo avversario politico, che parlò della “magica sicurezza con cui prontissimo afferrava ogni questione e dominava il complicatissimo labirinto degli equivoci italiani. Chi non ammira quell’insigne italiano, quel coraggio senza spada, che trionfava dei generali e dei tribuni, e sapeva quasi ugualmente signoreggiare le falangi rivoluzionarie di Garibaldi nel Mezzodì e quelle regolari della Francia nel Nord ?... Egli ci ha superati, ci ha vinti. Qualunque cosa che voi ora facciate, andate a Roma, penetrate a Venezia, sarà il conte di Cavour che vi ha condotti, preceduti, consigliati, menati”.

 

 Cavour morì imprevedibilmente il 6 giugno 1861  a cinquant’anni, meno di tre mesi dopo la nascita del Regno d’Italia: eroe romantico non nell’aspetto o nei modi, ma certamente per la febbrile determinazione, per le geniali intuizioni e le tempestose battaglie con gli ostacoli che trovò sul cammino. “Modus operandi” e successi celebrati dalla stampa estera  e dalla politica inglese, mentre due uomini molto diversi tra loro, come Metternich e Dostoevskij, tra gli altri ne riconobbero  la grandezza politica. Con la sua scomparsa e priva della sua pressante iniziativa la nuova Italia non ebbe vita facile, anche se non mancarono nel sessantennio successivo statisti di valore tra i quali Quintino Sella e Giovanni Giolitti.

 

Insignito del premio Cavour per il 2016, Mario Draghi ha pronunciato a Santena il 23 gennaio 2017 un discorso in cui ha celebrato in modo non rituale la grandezza politica di Cavour. Discorso che “Landino” ha pubblicato per intero e del quale sarà proficua una rinnovata lettura, alla luce del parallelo che Draghi magistralmente ivi traccia tra l’Italia e l’Europa di allora e di oggi,  delle positive novità al riguardo recentemente intervenute nella politica italiana ed europea e del  messaggio politico cavourriano come “irresistibile fonte di ispirazione”.

C’è un altro aspetto non secondario del “mondo cavourriano”, ed è quello che lo storico Alessandro Barbero ha sapientemente evidenziato, in particolare in una conferenza tenuta nel 2010 al “Festival della Mente” di Sarzana, disponibile su YouTube, descrivendo le reazioni a Torino alla improvvisa morte di Cavour.

Cita una lettera della marchesa D’Azeglio al figlio assente: “Si piangeva ovunque, non è un modo di dire: si piangevano lacrime autentiche al Senato, alla Camera, nei ministeri. Hudson (l’ambasciatore inglese) piangeva come un bambino”. E la testimonianza di un aggiunto all’ambasciata francese: “La costernazione e lo stupore che regnano nella città hanno qualcosa di spaventoso… Alla Camera il ministro dell’interno Minghetti si è alzato per comunicare la notizia, ma è scoppiato in lacrime annunziando la morte del conte Camillo di Cavour presidente del consiglio. Moltissimi deputati piangevano..”. E Barbero conclude riconoscendo la diversa emotività di allora e di oggi e un certo rimpianto di non essere noi come loro.

Ha ragione: se riuscissimo a far nostro questo rimpianto e lo nutrissimo di compassione e di comprensione, forse potremmo meglio comunicare  non solo con gli uomini e le donne del nostro passato, ma anche con i più giovani ed il futuro. E così, in qualche misura, incontrarci con noi stessi.

 

 

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