Ancora referendum
Settimana decisiva per l’ammissibilità delle richieste di referendum sulla legge elettorale. Crisi dell’euro e manovre di bilancio contribuiscono a mettere la questione in secondo piano, eppure più di un filo lega la qualità della legge elettorale alle capacità del sistema di governare la finanza pubblica. Come, si potrebbe dire, ancora la questione della legge elettorale? Non abbiamo già dato? Non è definitivamente chiaro che la legge elettorale è al massimo la cornice mentre quello che interessa tutti noi è il quadro? Si potrebbe certo discutere dell’efficacia delle politiche di riforma istituzionale cui abbiamo dato vita in Italia negli ultimi 25 anni, a partire dall’abolizione craxiana del voto segreto in Parlamento. Un what went wrong sarebbe d’obbligo tra i riformisti di questo paese. Il punto oggi non è però questo. All’ordine del giorno abbiamo invece due interrogativi. Governo Monti e referendum possono convivere? E, ancora prima, questo referendum serve a qualcosa? Comincio dalla prima domanda. Sì, governo Monti e referendum possono convivere. A una condizione, naturalmente: che il governo Monti non sia ostaggio di quelle parti politiche che lavorano per smontare il bipolarismo, cioè un sistema di democrazia decidente nel quale l’elettorato sceglie chi va al governo e chi sta all’opposizione. Più si allarga l’area che sostiene la tesi dell’incompatibilità e più è probabile che il governo Monti si stia trasformando in qualcosa di diverso da quello per cui, su mandato presidenziale validato da un voto di fiducia, è nato alla fine del 2011. La cosa si fa ancor più evidente se si pensa che il governo dispone di tutti gli accorgimenti istituzionali per convivere con il referendum. La questione elettorale non è nel suo programma. Mentre pende una richiesta di referendum è ovviamente la Corte costituzionale, in sede di ammissibilità, a doversi pronunciarsi. Se poi la Corte dice sì, la parola passa all’elettorato. D’altra parte anche Ciampi nel 1993 sperimentò una lunga convivenza con la questione referendaria, in un contesto parlamentare diviso e conflittuale. Non ci sono dunque ragioni istituzionali per mettere in connessione la stabilità del governo con il referendum. Chi lo fa persegue altri fini: non vuole smontare “questo” bipolarismo, vuole smontare “il bipolarismo”. La seconda domanda. A cosa serve questo referendum? A reintrodurre il precedente sistema elettorale misto, con collegi uninominali e quota proporzionale. Con il che però verrebbe meno, si sostiene, l’indicazione del candidato premier e la formazione pre elettorale delle alleanze, entrambe previste dalla legge attuale. Cioè due delle condizioni del bipolarismo di cui siamo in cerca da 20 anni. Messa così l’obiezione sembra convincente. La vittoria nel referendum farebbe riacquistare all’elettorato il controllo sulla scelta dei parlamentari mediante il sistema del voto nel singolo collegio uninominale. A un prezzo: la scomparsa dell’indicazione del premier e del premio di maggioranza, potenti fattori di incentivo alla creazione di coalizioni pre elettorali e all’uso del cosiddetto voto utile. Ci sono però due elementi che mettono in dubbio questa conclusione. Uno più piccolo e uno più grande. Quello più piccolo consiste nel fatto che l’incentivo alla presentazione di un candidato premier e alla preventiva formazione delle coalizioni è nella logica del sistema che si vuole reintrodurre con il referendum. E’ quello che è avvenuto dal 1994 al 2001, tanto che chi non l’ha fatto (il PDS nel 1994) ha perso le elezioni. E chi si è sottratto alla scelta di schieramento bipolare è stato marginalizzato (il PPI nel 1994 e la Lega nel 1996 con gli effetti elettorali del 2001). Quello più grande ci dice che in discussione oggi non è il confronto tra la legge attuale e la vecchia legge elettorale da ripristinare tramite referendum. E’ piuttosto quello tra una probabile riforma proporzionalista della legge attuale (sia o no condita con soglie di sbarramento alla tedesca) e la vecchia legge elettorale. Cioè tra una riproporzionalizzazione del sistema e la possibilità di chiamare l’elettorato a ripristinare un sistema che certo non è il migliore ma che comunque proporzionale non è. Oggi come nel 1993 i gruppi dirigenti dei partiti tentano di riacquistare una capacità di interdizione in parte svincolata dal giudizio degli elettori. Il ritorno a un sistema elettorale proporzionale è lo strumento principale di questo tentativo. E’ probabile che solo l’elettorato abbia interessi diversi da far valere rispetto a questo disegno. E il referendum è la sola sede nella quale questi interessi si possono esprimere.
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