Vittorino Ferla sui partiti (da Gazebos)

C’era una volta il Partito (e per fortuna non c’è più) Vittorino Ferla Grazie alla recente inchiesta di Repubblica, si ritorna a parlare di tessere e forma partito. Un dibattito che, con tutto il rispetto per i suoi protagonisti, comincia ormai ad appassionare soltanto pochi feticisti. La militanza politica nei partiti è in crisi almeno dagli anni 70, e va di pari passo con la progressiva crisi della rappresentanza. Il contesto sociale, economico e politico è radicalmente mutato. E i partiti sono stati di fatto ridimensionati da due concorrenti spietati. In primo luogo, la “militanza senza appartenenza” (così la battezzò Giuseppe Cotturri nel 1985) o, con un’espressione più moderna, l’“attivismo civico”. Milioni di persone preferiscono impegnarsi in un’area del ‘fare’ concreto, attraverso gli strumenti dell’advocacy (cioè la tutela dei diritti) o del servizio (gestione di attività di interesse generale ed esercizio di funzioni pubblico-sociali). Una politica diffusa che ha di fatto sostituito i partiti di massa in alcune funzioni tradizionali: l’educazione popolare, l’integrazione sociale, la partecipazione alla democrazia, l’elaborazione e la valutazione delle politiche pubbliche. In secondo luogo, le tecnologie della comunicazione che hanno fatto saltare i canali di intermediazione tradizionali, primo tra tutti, il partito. Prima la televisione ha avocato a sé il monopolio di dell’informazione politica nonché la capacità di costruire universi simbolici: funzioni che erano un tempo esclusive delle strutture politiche organizzate. Oggi, con l’avvento dei social media, la logica perversa - in quanto esplicitamente unilaterale- della televisione è stata aggiornata e riequilibrata a vantaggio dei cittadini. Questi ultimi, oggi, non soltanto hanno luoghi tutt’altro che virtuali dove il dibattito si svolge in tempo reale, ma sono diventati essi stessi produttori e aggregatori di informazioni, animatori autonomi del dibattito, secondo modalità del tutto inedite. In questo contesto, il Pd era ancora l’ultimo partito ‘solido’, erede di quella tradizione ‘fordista’ e ‘leninista’ della politica che ne faceva il principe moderno, la grande macchina burocratica della partecipazione. Dentro al Pd sono confluiti l’impronta della vecchia tradizione verticistica, gerarchica e oligarchica del Partito comunista (nel quale, a dispetto delle retoriche diffuse, i militanti non è che contassero poi così tanto) e l’impronta tipicamente democristiana del partito di correnti, capaci di organizzare tessere e consensi in una miscela di nobili ideali e divisioni tribali. In questa catena evolutiva, un ruolo di primo piano fu incarnato dal passaggio di Veltroni. Con lui segretario si impose una virata decisa verso la forma di partito moderno. Un partito che non ha più pretese universalistiche, consapevole che il suo ruolo principale è quello di far funzionare un pilastro – ma solo uno! – delle democrazie moderne: quello della selezione delle classi dirigenti attraverso i momenti elettorali, assicurando il pieno svolgimento delle dinamiche necessarie di un sistema politico (stabilità dei governi intorno ad un leader e al suo programma, garanzia dei contrappesi istituzionali e dei poteri di controllo delle opposizioni). Le primarie diventano la chiave di volta di questa nuova identità: non soltanto perché permettono di saltare le intermediazioni correntizie nella selezione del leader rendendo trasparente e aperta la competizione, ma anche perché legano la figura del segretario a quella del candidato premier, una soluzione di garanzia per l’effettività delle politiche, secondo uno schema tipicamente europeo e occidentale. La storia ci dice che, in questo processo, i circoli del pd sono rimasti in molti casi i bunker della ‘vecchia guardia’, asserragliata nella difesa di un partito e, soprattutto, di una politica che non esiste più, perché nel frattempo si è trasfigurata. Ancora utili certamente per svolgere alcune mansioni organizzative, ma del tutto inadeguati per raccogliere e rappresentare le istanze dei territori nel momento in cui tutto intorno cambia. Non bisogna stupirsi, dunque, sull’eventuale crollo dei tesserati (cosa peraltro ancora tutta da dimostrare, visto che il tesseramento è in corso e manca ancora qualche mese prima della chiusura dell’anno ‘sociale’). In fondo, chi sono questi tesserati? In molti casi, manovalanza di correnti. In altri, residui della militanza che fu. In molti altri, iscritti legati al ‘vento’ delle primarie. E via elencando. Insomma, una realtà sempre più ‘liquida’ e sempre meno governabile nel tempo. Di fronte a queste trasformazioni il piagnisteo e la nostalgia per il mondo che fu hanno poco senso. Inutile voltarsi indietro a rimpiangere la comunità che non c’è più – come farebbe Bauman - mentre nuove comunità emergono e le vecchie si riorganizzano secondo nuovi schemi. La partecipazione dei cittadini ci sarà sempre, ma con forme nuove e diverse. Sarebbe infantile addebitare a Bersani o a Renzi - o a chi altri verrà dopo di loro - responsabilità per non aver saputo frenare il mondo che cambia. Semmai, bisognerà congratularsi con chi saprà meglio incarnare questi cambiamenti inevitabili.

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