Renzi tra riforme di fatto e riforme da fare

Molti hanno trovato inappropriato il discorso di Renzi alla Camera. Stile informale, nessun appunto scritto, mani in tasca, pochi numeri, appello all’opinione pubblica fuori dell’aula e non ai parlamentari in aula. Al netto delle questioni di stile, che spesso oscillano però tra il gusto personale e la correttezza costituzionale, bisognerebbe cominciare a fare i conti con il cambiamento che la premiership di Renzi sta imponendo al sistema politico italiano. E’ un cambiamento nel quale Renzi in parte ci mette del suo e in parte si mette nella scia degli ultimi 35 anni di storia italiana, tutti segnati dal processo di personalizzazione della politica. Un processo che non comincia con Berlusconi, non ha a che fare con una presunta eccezionalità italiana, non ha nulla di antidemocratico e di costituzionalmente irriguardoso. E’ il processo che caratterizza la democrazia del pubblico, l’assetto che le democrazie avanzate si sono date dopo la stagione lunga e gloriosa della democrazia dei partiti. Per l’Italia il processo ha sicuramente un inizio con Craxi anche se molti – e giustamente – risalgono all’elezione congressuale diretta di Zaccagnini come segretario della DC per individuarne un evento di avvio. Ha anche avuto un passaggio con Prodi che però soffriva della diarchia con il Pds di D’Alema e, poi, della polverizzazione dell’Unione. Non dobbiamo dimenticare per altro che stiamo giungendo alla democrazia del pubblico per l'affermazione fisiologica, in una forma parlamentare contemporanea, dell'unione personale tra leader del partito e leader di governo. E’ la prima riforma costituzionale di fatto già varata da Renzi, sulla scorta dello statuto del PD. Una riforma perfettamente congruente con la proposta di riforma elettorale Renzi-Berlusconi.  Quell’Italicum che, per inciso, va approvato al più presto, non necessariamente per usarlo subito ma sicuramente per trasformarlo immediatamente in deterrente contro la deriva veteroparlamentarista. Quella nella quale si muove ancora D’Alema che, non più di qualche ora fa, rimprovera a Renzi di aver usato il PD per conquistare il governo. Come se non fosse del tutto normale, in un contesto di democrazia del pubblico, pensare al partito come “strumento di servizio del leader” (Bernard Manin). Nulla di strano dunque. Nella democrazia del pubblico il leader del governo, e del partito che sta al governo, deve raccogliere, sintetizzare e restituire una motivazione, uno scopo, un obiettivo. Il leader serve a integrare la comunità politica, ad alzare lo sguardo, a innovare oltre gli interessi e le passioni politiche già strutturate, organizzate e protette. La sua è una funzione prevalentemente simbolica. Ma non è solo immagine, è sostanza. Spetta poi al governo e agli apparati tradurre lo slancio del premier in policy e in azioni. I numeri vengono dopo gli obiettivi. Non c’è da meravigliarsi. Né da istruire un’inutile comparazione tra il Renzi Sindaco e il Renzi Primo ministro per dire che il secondo non può essere la fotocopia del primo. Né da confrontare Renzi con Monti o con Letta. Nel caso di Renzi è lui il leader dell’esecutivo. E fa per intero il suo mestiere. Nel caso di Monti e di Letta, a torto o a ragione, il leader era Napolitano. A lui infatti è toccato di indicare motivazioni, scopo e obiettivo. E l’ha fatto alla grande, pensiamo al discorso al Parlamento in seduta comune. Monti e Letta erano i coordinatori dell’esecutivo, i vertici dell’apparato. Bene dunque ha fatto Renzi a scegliere quelle forme, quei contenuti e quell’interlocutore. Come Napolitano ha sfruttato la fisarmonica presidenziale per spostare l’asse del sistema di governo verso un assetto dualista, così Renzi sfrutta la flessibilità della costituzione per affermare un modello monista e primoministeriale. Un modello in cui il leader non coordina l’esecutivo ma svolge una sua distinta e personale funzione. In attesa che la riforma del sistema elettorale, quella del bicameralismo e – prima o poi – quella della forma di governo ricostituiscano un allineamento tra le forze e le forme. Consentendo di cancellare il vizio di origine che comunque colpisce anche Renzi: un gioco parlamentare e non un mandato elettorale come fonte della sua legittimazione. Il principe democratico non può essere espunto nella democrazia del pubblico. Deve essere addomesticato con i giusti contrappesi. Ma espungerlo vorrebbe dire paralizzare la democrazia. In quel caso sì a vantaggio di altri poteri. In una società poliarchica la politica non comanda ma decide.      

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