Non sono candidato. Amarezza e stupore per la compressione del pluralismo

E' definitivo. Non sono candidato. Dopo appena una legislatura. Non è servito essere al quinto posto per produttività complessiva di tutti i senatori, secondo del gruppo Pd. Non sono serviti il 95 per cento di presenza alle votazioni, i 719 interventi in Aula e Commissione,, l'essere stato primo firmatario di 33 progetti di legge soprattutto in materia elettorale e istituzionale, relatore delle leggi sul dimezzamento dei rimborsi elettorali e sull’anti-corruzione, sulle nuove Intese con le confessioni religiose di minoranza, Ortodossi, Apostolici, Mormoni, Buddisti, Induisti, nocnhé il ruolo di relatore di minoranza contro leggi del Governo Berlusconi. Non è servita la lealtà dimostrata nel non aver mai rotto la disciplina di Gruppo, né in Commissione né in Aula, anche quando le mie opinioni erano diverse, né l'aver lavorato per alcuni anni alla Presidenza del Gruppo, in particolare in raccordo con l'ufficio legislativo. Dato quindi che l'esclusione non è motivabile né in termini di anni di legislatura, né di produttività, né di slealtà, l'unica interpretazione plausibile è che si tratti di una chiara scelta politica. Una scelta che ha ritenuto incompatibile la mia presenza in Parlamento a causa della costante sottolineatura del dovere di continuità, pur nel mutato contesto politico, con l'agenda Monti, che il Pd aveva lealmente sostenuto come partito fino a poche settimane fa. Capisco, peraltro, che questa è la causa delle mancate ricandidature e delle mancate nuove immissioni di una significativa area politica, pur minoritaria. Prendo quindi atto con amarezza e, in parte, con stupore, che un Partito che si dichiara Democratico si rivela avere una concezione così limitativa del proprio pluralismo interno. Un dato su cui meditare seriamente.      Qui sotto, per chi vuole, una riflessione più ampia in 4 punti.  Flash-back al 2008: il Pd con confini ampi, anche se non è l'età dell'oro Il partito veltroniano del 2008, quello in cui sono stato eletto e di cui ero stato tra i protagonisti nella fase costituente, assomigliava molto all'Unione europea dopo l'allargamento. Sia per il modo in cui era stato costruito, per la dilatazione il più possibile ampia dei confini, sia per il risultato, una somma di minoranze in cui nessuna di esse sembrava prevalere stabilmente.  Per questo, come l'Unione europea, raccoglieva varie critiche, espresse ad esempio con la formula del "ma anche", da parte di coloro che volevano identità chiare e nette, un discrimine certo, sicurezze più nitide. Questa retorica dell'identità collettiva, in generale, anche in politica, non mi ha mai convinto perché troppo costrittiva delle differenze personali e di gruppo: sarà perché a me piacciono, come significato che va al di là degli aspetti religiosi, due splendidi passi evangelici che se ne fanno un pò beffe, ovvero la parabola dei talenti dove l'identità si trova solo spendendosi nel rischio, e Pentecoste, dove ognuno capisce l'altro pur parlando lingue diverse. Capisco però che in tempi di tendenze fondamentaliste diffuse siano pagine un pò dimenticate e in contro-tendenza. D'altra parte non a caso si scelse il nome "Partito Democratico" per sottolineare questo elemento plurale. Con questo non ripropongo nessun mito originario del 2008. Lo sappiamo tutti che quando scegli di unirti per allargamento forte e improvviso dei confini (una cosa qualitativamente ben diversa delle prime unioni parziali, già positive, nei Ds e nella Margherita) anziché per consolidamento di quello che già c'è finiscono per emergere problemi di tenuta che non si possono eludere col riciamo alla positività delle differenze. Il 2008 non era quindi un'età dell'oro a cui ritornare, era però un punto di partenza da non smarrire. Se infatti si getta insieme all'acqua sporca di un'eccessiva frammentazione interna anche il bambino di un partito nuovo pensato dentro un quadro tendenzialmente bipolare (la costruzione del bipolarismo per via istituzionale va di pari passo con quella partiti plurali e a vocazione maggioritaria, altrimenti si è schizofrenici) pensando di poter ricostruire l'unità compatta precedente si ricade fatalmente nelle anomalie speculari del sistema italiano della Prima fase della Repubblica. Da una parte l'orgoglio della tradizione della matrice del comunismo italiano (così articolato nel proprio insediamento e nelle politiche perseguite da non poter concludere la propria storia in una setta minoritaria come in Francia), dall'altra il fatto che per i limiti di quella tradizione si compattava contro in modo maggioritario gran parte della società italiana, comprese componenti progressiste che in altri Paesi si collocano naturalmente in una sinistra liberale. 2- La deriva identitaria post 2009 e la lealtà dimostrata   Con le primarie del 2009 si rispose alle difficoltà obiettive esplose con le dimissioni improvvise di Veltroni trovando il consenso, legittimamente espresso, su una indubbia deriva identitaria, a cominciare dallo slogan del nuovo segretario Bersani "Trovare un senso a questa storia", dove l'uso della storia al singolare dice simbolicamente già molto. Non siamo a Pentecoste, siamo al tentativo di Babele, di far parlare a tutti la medesima lingua, che non può che essere la lingua pre-esistente già parlata ion modo più diffuso. Con questo non si vuol dire che quella lingua fosse in sé negativa né che avesse legato a sé in passato (quando era arrivata bene o male a coprire fino un terzo degli italiani) solo chi voleva esprimere un'opzione ideologica astratta e un'alleanza internazionale sbagliata. No, era la lingua parlata anche da molti che vi trovavavano la difesa della propria condizione di emarginati, come nella periferia di Pisa dove sono cresciuto (anche se di quella tradizione non facevo parte), il senso di un riconoscimento nelle istituzioni comuni al di là della stabile collocazione all'opposizione (altrimenti non si spiegherebbe un grande Presidente come Giorgio Napolitano) e che ha affascinato in modo diretto o indiretto anche alcuni credenti di grande spessore umano e cristiano, pur se estranei al mondo cattolico propriamente detto e, a mio avviso, come ha ben spiegato soprattutto Pietro Scoppola ne "La nuova cristianità perduta", poco avvezzi a operare con categorie politiche adatte a una grande democrazia occidentale. Una realtà capace di realizzare ad extra le alleanze anche più eterogenee in momenti di emergenza e di cooptare intorno a sé esterni anche molto diversi. E però se fosse bastato dopo il 1989 costruire su quella base e limitarsi ad alleanze non avremmo avuto gli scacchi elettorali e quelli politici di tutta la seconda fase della Repubblica. A me quella prevalsa dal 2009 è sembrata la logica di chi per paura sotterra i talenti, ripiega sulle tradizioni consolidate, anche se quell'ipotesi ha obiettivamente vinto convincendo di più. Un partito è uno strumento importante e non si getta certo alle prime difficoltà: non è un matrimonio indissolubile, non è una chiesa (che per il credente dovrebbe essere uno strumento necessario), però scegliere di costruirlo e di militarvi non è un qualcosa di cui liberarsi come se fosse un fazzoletto perché è anche e soprattutto una rete di relazioni, di diritti e di doveri. Per questo dal 2009 mi sono trovato molto spesso in minoranza nel partito, in occasioni significative anche nel Gruppo, e ho adottato l'atteggiamento di sincerità nelle motivazioni e di unità nel voto. Non troverete mai in Aula o in Commissione un mio dissenso nel voto su materie decise in Assemblea di Gruppo e su cui ero andato in minoranza o comunque su questioni di prima grandezza. Il sito di Openpolis http://parlamento.openpolis.it/parlamentare/333038 dice che avrei votato in dissenso 80 volte su più di 6.000, ovvero l'1.33%, ma bisogna dire che rileva solo regolarità statistiche e che in alcuni casi, su materie delicate o anche minute, si vota senza disciplina prestabilita. Tant'è che la senatrice Incostante, quella che dava le istruzioni di voto in Aula a tutto il Gruppo, risulta aver votato persino lei in modo difforme 77 volte, 1,3%. Quando il Gruppo nella fase del Governo Berlusconi e nei momenti più tumultuosi ha deciso democraticamente in Assemblea una linea aventiniana di abbandono dell'Aula, a cui sono ideologicamente contrario, ho rispettato l'indicazione. Quando si è trattato di scrivere pregiudiziali di costituzionalità ho cercato di invitare a un uso parsimonioso dello strumento, che dovrebbe restare uno strumento forte e per questo non inflazionato (non ogni legge sbagliata nel merito è di per sé incostituzionale), ma quando il Gruppo ha deciso che andassero comunque scritte l'ho fatto, evitando magari di illustrarle io medesimo perché non mi riesce molto bene sostenere tesi che sento non del tutto fondate. Credo che questo possa essere un modo di vivere la lealtà, soprattutto da parte di intellettuali momentaneamente in politica, distinguendosi bene sia dal conformismo dell'esperto disposto a sostenere qualsiasi tesi, anche la più improbabile (come gli avvocati parlamentari di Berlusconi) sia da un atteggiamento ribellistico di tecnici chiamati in politica che vogliano difendere a tutti i costi la propria posizione con una sorta di integralismo professorale. 3- Monti e Renzi: due possibili inversioni di tendenza L'occasione per invertire la tendenza si è manifestata anzitutto col nuovo Governo di Mario Monti, saggiamente costruito con la maieutica presidenziale. In tempi brevi, con una maggioranza troppo eterogenea, con una squadra non tutta all'altezza, con tutti i limiti che si vuole, però abbiamo gettato un'ancora di salvezza per l'Italia e per l'Europa. Un cattolico liberale degasperiano, capace di farsi capire dai tedeschi e dai nordeuropei sempre sospettosi di chi assume impegni e non li rispetta, dagli anglosassoni che temono le logiche continentali troppo fiduciose sull'intervento stabile diretto del pubblico nell'economia come fattore di sviluppo. Non un uomo di sinistra nel senso tradizionale del termine, ma certo un uomo che sarebbe rientrato anche nel perimetro del Pd del 2008, un partito con un nome non casualmente ripreso da un partito americano. Esso lo ha sostenuto anziché buttarsi a capofitto verso elezioni in cui avrebbe vinto senza ancora essere obiettivamente pronto per governare. E poi, accettando Bersani la sfida delle primarie, rendendosi in questo conto delle regolarità democratiche dei partiti a leadership contendibile (un candidato si sceglie tra sei mesi e un anno prima delle elezioni) è emerso il fenomeno Renzi che è sembrato poter incarnare una variante più giovanile e più calda del montismo, nel solco del Pd del 2008. Andava appoggiato per questo: è stata una scelta giusta. Non ho mai avuto l'occasione di parlarci di persona, né l'ho personalmente cercata durante tutto il percorso delle primarie. Non credo (almeno per come concepisco io la politica) che si debba negoziare un appoggio fondato su una sensibilità comune con la richiesta in cambio di garanzie personali. Spetta caso mai a chi è sostenuto decidere come valorizzare i sostenitori ed è lì che si verificano ulteriormente le doti di leadership nel sapere selezionare e utilizzare le persone nel ruolo più appropriato. Fatto sta che dopo il risultato splendido (che ha peraltro dimostrato come l'elettorato si potesse scongelare rispetto al ventennio berlusconiano se stimolato da un'offerta politica innovativa e senza più il peso del fallimento dell'Unione) Renzi sembra aver perso la sua spinta propulsiva. E' scomparso dalle cosiddette "primarie parlamentari", favorendo un esito regressivo a cui conducevano naturalmente già le brutte regole (collegi provinciali con effetto localistico cumulati a pochissimi giorni di campagna limitandosi così al solo elettorato di appartenenza, mobilitabile o dagli eletti locali o dal principale sindacato di riferimento, la Cgil, in una sorta di cinghia di trasmissione capovolta) ed è poi ricomparso con una posizione minimalista nella trattativa su cosiddetto listino. L'ultima cosa, questa, che un leader dovrebbe fare: o resta fino in fondo in disparte accettando decisioni che sono nella piena responsabilità di altri o combatte per imprimere la necessaria correzione. Se le cosiddette primarie avevano mostrato una caduta localistica e di appartenenza si trattava di utilizzare il listino per una logica nazionale e di opinione. In piccola parte, peraltro, ciò è poi paradossalmente avvenuto per iniziativa di Bersani e non di Renzi, sempre però più nella logica di cooptazione esterne uti singuli, in modo però che sembra almeno parzialmente analogo a quanto avveniva con gli indipendenti di sinistra. I confini del partito restano più ristretti rispetto al 2008, ma non si esclude di tenere come eccezione qualche enclave personale nel territorio altrui. 4- Epilogo: la non candidatura di un'area e la restrizione del pluralismo   L'epilogo di queste ore che mi riguarda, con l'esclusione dalle liste, è noto. Mi era stata preannunciata da giorni con chiarezza, anche se c'è chi ha lottato per me fino all'ultimo. L'aveva criticata qui Marco Damilano con parole forse ben troppo generose: http://damilano.blogautore.espresso.repubblica.it/2013/01/07/silenziati/#comments Non è però solo un caso personale. C'è stata una volontà evidente di restringere i confini del Pd marcando una frontiera netta con Monti, nel nuovo scenario politico-elettorale, pur sapendo che ben difficilmente dopo il voto questo Paese potrà prescindere da un rapporto positivo tra le uniche due realtà dotate di cultura di Governo di fronte alle tre proposte populiste (Ingroia, Grillo e Berlusconi). Sembra che pressoché tutti coloro che avevano lavorato dal Pd (volendo chiaramente restare nel Pd) come si vede da qui http://www.agendamonti.eu/ per stabilire un chiaro ponte con Monti sulla base di una cultura politica di sinistra liberale o, come si preferisce dire in Italia, di centrosinistra, debbano restare vittima di una sorta di cortina di ferro che si debba stabilire per forza in campagna elettorale, forse anche solo per aver organizzato il convegno di sabato prossimo a cui era stato invitato anche il segretario Bersani: http://www.libertaeguale.com/files/RIFORMISMO%20vs%20POPULISMO%2012%20gennaio%202013.pdf Il Pd non è passato comunque invano e qua e là qualche spezzone di cultura liberal più anglosassone e meno statalista rimane, specie con alcune delle ultime candidature annunciate. Anche tra i cattolici democratici vari spezzoni di quest'area plurale restano comunque dentro, pur restringendosi quasi solo alle sole aree del cattolicesimo di sinistra più tradizionale nella visione stato-società di tipo dossettiano e meno sensibile all'insegnamento sociale recente post Centesimus annus. Però resta il fatto che i confini del partito come tali sono più ristretti e meno ambiziosi di quelli del 2008 e che la linea di demarcazione tracciata all'improvviso lascia fuori in modo imprevisto una precisa area politico-culturale. Non tanto e non solo da una lista elettorale, ma proprio dal progetto politico di questa fase.   5. Ringraziamenti Se siete arrivati sin qui a leggere tutto, e ancor più se vi siete sorbiti in questi anni il mio eccesso di comunicazioni, che però è stato un modo per surrogare l'assenza di un preciso collegio elettorale in cui  spiegarsi direttamente, Vi sono infinitamente grato.  A tutti.  A qualcuno però devo di più. Questo lavoro non sarebbe infatti stato possibile senza varie collaborazioni di natura diversa, che ho difficoltà ad elencare per non dimenticare nessuno, ma devo pur farlo per riconoscenza.  Sperando di non fare troppe gaffes, e di non coinvolgere altri in errori miei, ringrazio in particolare Claudia Zaffino che è stata la mia collaboratrice diretta; Francesco Clementi, Valentina Fiorillo, Antonio Funiciello e Massimo Rubechi che mi hanno dato vari preziosi suggerimenti e supporti; i colleghi senatori Pd, soprattutto quelli dell'Ufficio di Presidenza, del Gruppo di Commissione e quelli che hanno condiviso l'esperienza di Libertà Eguale e della Fondazione Democratica; tutte le persone che collaborano per il funzionamento del Gruppo Pd Senato, a partire da quelle che ho tormentato quantitativamente di più (loro lo sanno) Roberto Traversa per il collegamento col Gruppo Pd della Camera, il Presidente della Commissione Affari costituzionali Carlo Vizzini e tutto lo staff della Commissione, i colleghi degli altri gruppi con cui, al di là della diversa collocazione politica, si è stabilito un rapporto positivo di lavoro specie in Commissione, tra cui Pancho Pardi dell'Idv e Lucio Malan del Pdl. Ringrazio altresì Gigi Brossa e il Gruppo di Libertà Eguale di Torino per il prezioso supporto in Piemonte. Ringrazio infine tutti coloro che mi hanno invitato a parlare in questi anni in giro per l'Italia soprattutto sui temi di riforma elettorale e istituzionale (sforzo in gran parte purtroppo improduttivo) e su quelli di libertà religiosa e laicità (su cui invece, per fortuna, abbiamo fatto passi più significativi). Last but non least ringrazio Augusto Barbera, che mi ha insegnato a suo tempo come cercare di fare al tempo stesso il parlamentare e il costituzionalista, nel difficile sforzo di unire la passione politica che deve animare il primo e il rigore logico e argomentativo che deve sempre caratterizzare il secondo. Spero, in questo, di non aver fatto troppi errori, anche se sono sempre stato convinto (anche sul piano teologico) che quello peggiore sia sempre il peccato di omissione.

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