La strana alleanza, di Giorgio Armillei

Dopo il discutibile argomento del trasformismo, a marzo 2018 si dice no al M5s mentre ad agosto 2019 quel no diventa un sì, ecco serpeggiare un nuovo improbabile tema nel dibattito sulla crisi di governo. È difficilmente contestabile un dato: ci troviamo oggi di fronte plasticamente alla palude, al mercato del parlamentarismo proporzionalizzato. Per di più in presenza di partiti di carattere prevalentemente elettorale con una assai fluida disciplina parlamentare. Partiti nuovi con regole vecchie, dunque, e con piena libertà di negoziazione come si suol dire “post elettorale”: gli elettori distribuiscono i pesi, ai partiti e ai parlamentari il compito di fare e disfare maggioranze e governi. E se ci troviamo di fronte a questo dato lo dobbiamo essenzialmente al no al referendum costituzionale del 2016, quando molta sinistra, ispirata da autorevoli intellettuali, si impegnò in una forsennata campagna contro la riforma, unendosi senza imbarazzo a Lega, M5s, Berlusconi e FdI.

Cosa dicono oggi quegli stessi intellettuali? Mettono per caso in discussione quella posizione? Riconoscono seppur con il senno di poi che sarebbe stato meglio avere oggi istituzioni politiche parlamentari più efficienti e responsabili? Ripensano con rammarico all’appello ignorato dei costituenti affinché il regime parlamentare sia dotato delle opportune correzioni per evitare le “degenerazioni del parlamentarismo”? Non sembra. Anzi ritornano alla carica, da ultimo Canfora su La7, con l’argomento del rischio presidenzialista: ben hanno fatto gli elettori, continuano a dire, a respingere la riforma del 2016 che ci avrebbe consegnato un regime presidenzialista, il regime dell’uomo solo al comando.

La verità, come tutti sappiamo, è che la riforma del 2016 – criticabile quanto si vuole – faceva tutt’altro. Riformava sul serio il bicameralismo, differenziando funzioni e dunque modalità di elezione delle due camere; razionalizzava la forma di governo parlamentare, così come chiedevano i costituenti, verso un tenue premierato; e lo faceva in combinato disposto con una legge elettorale “majority assuring”, destinata a restituire agli elettori il potere di conferire il mandato elettorale. La successiva sentenza della Corte costituzionale su quella legge non cambia la sostanza politica delle cose: l’obiettivo di quegli intellettuali era abbattere una politica di cambiamento della sinistra italiana, una politica che – come quella craxiana degli anni Ottanta – chiudeva con la vecchia sinistra del ‘900. Renzi è caduto nella trappola ed ha personalizzato il voto, come Craxi cadde nella trappola di Andreotti. La questione è però ancora quella: pur di non cambiare la sinistra collocandola sull’asse liberaldemocratico, non solo si preferisce farla perdere ma si manda in stallo l’intero sistema costituzionale. Giocando spregiudicatamente con gli alleati che ci sono. Politics makes strange bedfellows.

Difronte alla crisi di governo è scattato il medesimo riflesso condizionato. Nessun ripensamento, nessun timore di - questi si imprudenti e disordinati - uomini e donne al comando, nessun ravvedimento operoso. L’unico obiettivo è sbarrare la strada al cambiamento a sinistra, anche se questo significa perdere le elezioni o consegnarsi a spericolate alleanze populiste. La strana alleanza della forsennata campagna per il no, vera e prima incubatrice di populismo, torna a riproporsi come un disco rotto. Anche in questo caso non si guarda per il sottile: qualsiasi alleato è buono per la battaglia suprema. Neppure la lezione europea, da Macron a Ursula Van der Leyen, insegna nulla. La sinistra e suoi intellettuali non vogliono cambiare.

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