Il mantello di Napolitano

A manovra approvata possiamo tornare su un paio di questioni che il governo Monti continua a porre al sistema politico. Innanzi tutto la questione istituzionale. Non abbiamo una sospensione della democrazia, piuttosto una sospensione del bipolarismo, cioè di un sistema di governo nel quale sono gli elettori a scegliere, in modo più o meno diretto, un pacchetto di politiche, una maggioranza parlamentare e il suo premier. In questo caso è stato il Presidente della Repubblica a fabbricare maggioranza, governo e premier (in qualche caso anche le politiche) in concorso con i partiti e i gruppi parlamentari. Si dice, una sospensione che è e resta un’eccezione rispetto alla regola, un’eccezione nata dalla gravissima emergenza di finanza pubblica e di quadro costituzionale europeo, un’eccezione che ha trovato la sua corretta soluzione istituzionale. Il Presidente della Repubblica è infatti il regolatore delle fasi di crisi. Il punto è però che quando il regolatore non si limita a sbloccare una situazione di stallo ma diventa un vero e proprio reggitore dell’ordinamento costituzionale le cose si complicano. Tanto che nel suo efficacissimo pezzo sul Sole24ore del 21 dicembre Francesco Clementi finisce con il ricorrere, e giustamente, a Carlo Esposito per leggere costituzionalmente la condotta di Napolitano. Il che, fuori dai tecnicismi, vuol dire che per farlo assume una visione estremamente larga dei poteri presidenziali con due immediate conseguenze. La prima è che si tratta di una visione coraggiosa ma che ha visto i costituzionalisti tradizionalmente su posizioni opposte, certamente conservatrici, in nome del principio per cui è l’intero circuito dei supremi organi costituzionali il titolare dei poteri eccezionali di superamento delle emergenze costituzionali. La seconda è che questa espansione impone il tema della responsabilizzazione del potere di gestione dell’eccezione. In altri termini della politicizzazione delle funzioni presidenziali. Non casualmente riemergono le proposte di elezione diretta. Una cosa del tutto legittima ma certo assai lontana dall’evoluzione della nostra forma di governo verso un assetto nel quale programma, maggioranza parlamentare e premier sono scelti dagli elettori. L’evoluzione sostenuta da tutta l’area riformista del PD. In secondo luogo la questione del sistema di partito. Si dice che il governo Monti può garantire una fase di ristrutturazione del sistema di partito e anche dei partiti al loro interno. Obiettivo: superare il bipolarismo estremo in direzione di un bipolarismo moderato. Al di là della reale possibilità di progettare a tavolino il passaggio da un bipolarismo all’altro, a me sembra che occorra piuttosto congegnare regole istituzionali capaci di conformare i partiti ad un bipolarismo solido e legittimato. Legge elettorale, finanziamento della politica, regolamenti parlamentari sono in questo caso le cose che contano. Su tutto questo si è però fermi, in attesa della sentenza della Corte costituzionale sul referendum e in preda ad una pericolosa sindrome del gioco a somma zero per la quale ammissibilità del referendum e stabilità del governo non possono andare insieme. Se teniamo Monti non possiamo avere il referendum. Con il che Monti diventa un oggettivo fattore di conservazione istituzionale, il contrario di quanto serve a ristrutturare il sistema di partito. D’altra parte come nella stagione 1992-1994 i partiti non segano l’albero sul quale sono seduti. E difatti chi sta sfruttando al meglio questa fase sono proprio coloro che pensano di risuscitare un centro politico pronto ad allearsi secondo le convenienze a destra o a sinistra. Naturalmente senza dirlo prima agli elettori. I riformisti del PD e del PdL (ma qui ce ne sono ancora?) debbono uscire allo scoperto, cercare alleanze e mostrare come la “eccezione necessaria” non è l’anticamera del neocentrismo. Il mantello di Napolitano, al netto delle questioni costituzionali, non può coprire ancora a lungo.

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