I candidi e i silenti: percorsi del costituzionalismo conservatore, di Giorgio Armillei

Bizzarra e un po’ deludente la reazione della cultura costituzionalistica italiana alla nascita del governo giallo-verde. O per dire meglio di quella parte della cultura costituzionalistica che dai referendum elettorali del 1991 al referendum costituzionale del 2016 non ha fatto altro che invocare la difesa della costituzione materiale contro i tentativi ritenuti surrettizi e obliqui di suo stravolgimento. Bizzarra perché dentro la comune casa del conservatorismo costituzionale finiscono per l’abitare sia i candidi, quelli che si sorprendono perché sotto i colpi dei partiti populisti vanno in frantumi l’art.92 e l’art.95 della costituzione, finisce con l’essere minacciato l’art.67, ondeggia paurosamente l’art.111, sembrano resistere agli attacchi l’art.81 e l’art.117; che i silenti, tutti coloro cioè che sono passati dallo stracciarsi le vesti per i 30 anni di riforme costituzionali ed elettorali alla contemplazione muta – con repentine parziali apparizioni come nel caso di Zagrebelsky che non ha per altro ancora deciso se difendere la novità del governo nascente o i poteri del Presidente della Repubblica - dell’avanzare del populismo giudiziario che insieme a quelle economico, a quello politico e a quello ambientale costituiscono la miscela di cui si alimenta questa nuova maggioranza politica. Tutto ciò naturalmente al netto degli argini e dei limiti imposti a suo modo da Mattarella che, tra le diverse vie possibili, ha finito per comprimere la sua fisarmonica e scegliere una strategia di riduzione del danno, pur potendo fare di più e di meglio. Ma non è questa la sede per approfondire il punto. Ci sono poi quelli che si accapigliano per l’uso scandaloso del termine privatistico “contratto” nel regno incontaminabile del diritto costituzionale, dimenticando che le contaminazioni e i prestiti sono da tempo patrimonio del diritto pubblico e che una partizione sacrale tra i due mondi del diritto appartiene alle “mitologie giuridiche della modernità” di cui ha scritto a lungo l’ex presidente della Corte costituzionale Paolo Grossi. Accapigliamento per altro del tutto secondario rispetto all’agenda politica di queste settimane. I candidi e i silenti dunque. Entrambi non certo privi della cultura giuridica per prevedere che una volta demolito ogni tentativo di razionalizzare il nostro parlamentarismo, tentativo richiesto esplicitamente – non conviene mai dimenticarlo – dagli stessi costituenti, non sarebbe rimasta che una disordinata e oligarchica deriva non presidenzialista né plebiscitaria ma oligarchica e naturalmente extraparlamentare. Specie in presenza di un sistema di partito destrutturato, con coalizioni dominanti frammentate e verticalizzate e con strumenti orizzontali di costruzione dell’opinione pubblica assai più sensibili di quelli del parlamentarismo del novecento alla volatilità delle tendenze degli opinion maker e, ora, dei trend setter e degli influencer. Deludente perché in quel mondo è del tutto evidente che la chiamata alle armi contro le riforme della costituzione materiale funziona a corrente alternata. Difficile andare al fondo di questo strabismo, rintracciarne le radici, analizzarne le cause, al di là ovviamente di inclinazioni personali o di piccoli interessi di carriera, cose queste che non riguardano certo i big scesi in campo in tutti questi anni. Volendo azzardare un’ipotesi si potrebbe dire, forse in modo assolutamente controintuitivo, che al fondo di questo atteggiamento stazioni il perdurante azionismo di tanta cultura politica dei grandi intellettuali della vecchia sinistra italiana. Dal che l’elitarismo pedagogico, educheremo i populisti del M5s alla democrazia rappresentativa e al rigore di finanza pubblica, e il dirigismo “nittiano”, finalmente possiamo prendere il comando di una coalizione che chiude decenni di (presunta, soprattutto in Italia) egemonia liberista. Che il governo giallo-verde si prepari a fare di CDDPP una vera nuova IRI, avviandosi ad ingaggiare solenni conflitti con l’autorità dell’Unione in termini di aiuti di stato e di tutela della concorrenza, per il costituzionalismo azionista appare come un sogno e non come un incubo. Un problema in più per i liberali riformisti e per i cattolici riformisti. Ma che la battaglia sia anche e soprattutto sui frame, sulle narrazione, dovrebbero averlo compreso: gli ultimi due anni di dure sconfitte hanno insegnato qualcosa. E dovrebbero aver insegnato anche a chi si attarda ostinatamente a difendere l’allineamento sociale ormai surclassato tra destra e sinistra che lo scongelamento dei sistemi di partito generati da quell'allineamento è in corso da decenni. Siamo in una fase che Rokkan chiamerebbe di giuntura critica: non abbiamo più il vecchio, non abbiamo ancora il nuovo. Tuttavia congelamento e scongelamento appartengono alla fisiologia della storia dei sistemi di partito e non c’è nessuna ragione per cui qualcuno debba stare a destra, qualcuno al centro e qualcuno a sinistra. La combinazione tra mutamenti della struttura sociale, orientamenti degli elettori e offerta politica delle leadership in competizione è in permanente riformulazione. Nessuna tradizione o autorità esterne a questo processo possono conferire patenti di appartenenza statica. Da Clinton a Macron, da Blair a Renzi, abbiamo 25 anni di conferme di tutto questo. Realismo e prudenza consigliano di non dimenticarlo.

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