Cattolici e referendum: riformisti vs resistenti (ancora sull’articolo di Franco Monaco)

di Vittorio Ferla La fine del secolo scorso è stata caratterizzata da importanti transizioni sul piano internazionale (la fine del bipolarismo Usa-Urss in special modo) e sul piano nazionale (l’esaurimento del sistema dei partiti della Prima Repubblica). La transizione italiana è stata lunga e, per molti, non si è ancora completata. Fin dall’inizio, alcuni dei protagonisti di quel periodo hanno scelto di interpretare il ruolo dei ‘resistenti’. Per questo - pur provenendo da famiglie politiche diverse (comunisti, socialisti, cattolici, ecc.) – erano accomunati dal fastidio per il cambiamento e dalla riluttanza verso i tempi nuovi. In questa veste, i ‘resistenti’ di parte cattolica democratica hanno cercato prima di preservare l’unità politica dei cattolici, poi di garantire una funzione terzopolista e autonomista del popolarismo, infine - piuttosto che lasciarsi fagocitare dal populismo mediatico di Forza Italia - hanno dovuto accettare la contaminazione con la sinistra storica, portando con sé, però, un bagaglio non indifferente di paternalismo sociale e di moralismo antimoderno, non di rado avverso alle riforme progressive che il paese chiedeva.   Il passato che divora il presente L’ultimo articolo di Franco Monaco sui cattolici e i referendum è molto interessante perché rappresenta in modo plastico questa linea carsica e, proprio per questo, ha provocato in molti una distorsione ottica con la sensazione di leggere un documento d’altri tempi. Ovviamente, trattandosi invece di un documento contemporaneo si arricchisce di considerazioni ulteriori, alcune delle quali sconfinano nella nebbia di post-verità nella quale siamo avvolti. Quella nebbia, cioè, nella quale è possibile sostenere informazioni e tesi del tutto infondate e propalarle come vere fino a quando assurgono ad argomenti legittimi, anche in assenza di prove e dimostrazioni. A cominciare dalla scelta dei propri padri. Fra i tanti numi tutelari del cattolicesimo democratico disponibili, Monaco ne seleziona appena tre – tutti rigorosamente morti - secondo il suo personale gusto: Leopoldo Elia, Giuseppe Dossetti e Giuseppe Lazzati. Schiera contro la riforma Elia, ma per interposte moglie e figlia. Schiera contro la riforma Dossetti, per interposto sacerdote-inteprete. Schiera addirittura Lazzati contro la Fuci, per presunte deviazioni dall’ortodossia da parte di quest’ultima. Mica male, come strumentalizzazione del passato per divorare il presente. Ovviamente, trattandosi qui di riforme della politica e delle istituzioni, ci pare che da quell’elenco miserello siano sfuggiti in troppi.   La vertigine della lista Penso a De Gasperi che nel 1953 cerca di introdurre il premio di maggioranza nella legge elettorale al fine di garantire la stabilità dell’esecutivo, scatenando il leit motiv della deriva autoritaria che ancora oggi ci perseguita. Penso a Sturzo che, dopo il periodo di permanenza negli Stati Uniti, conquistato dal funzionamento del sistema politico-istituzionale americano, propone il sistema elettorale maggioritario per scardinare la partitocrazia italiana. Penso a Moro nel suo raffinato esercizio di allargamento delle alleanze al fine di portare la democrazia bloccata italiana verso una ‘terza fase’, più vicina a una moderna democrazia dell’alternanza, lontanissima da una prospettiva organicistica di compromesso storico. Penso a Scoppola, al quale dobbiamo l’analisi migliore sulla ‘Repubblica dei partiti’ e un impegno intellettuale rivolto al superamento di questa in chiave liberaldemocratica. Penso a Ruffilli, consapevole della necessità di completamento della Costituzione per garantire stabilità all’esecutivo, efficacia dell’azione legislativa, democrazia dell’alternanza e poteri effettivi al cittadino arbitro. Insomma, anche se ci limitiamo ai morti, il cattolicesimo democratico appare come qualcosa di ben più complesso: per fortuna, non si è esaurito nel conservatorismo costituzionale, nell’integrismo astratto, nel moderatismo paternalistico - motivi ai quali sono ancorati gli argomenti di Monaco - ma ha coltivato una “fedeltà creativa alla Costituzione” (citazione da Scoppola) sviluppando un ricco e coerente percorso riformatore.   Il riformismo dell’Ulivo e la fine della terza via democristiana Ma poi ci sono i vivi. Che hanno fatto e continuano a fare la loro parte. Nel 1998, la rivista dei Dehoniani, Il Regno, organizzò una incontro a Camaldoli sul rapporto tra cattolici italiani e bipolarismo. Erano gli anni d’oro dell’Ulivo. Nelle Tesi del ’96 (i Pantheon sono fatti anche di questi testi) erano già state proposte e anticipate alcune di quelle riforme poi precipitate nella riforma Boschi. All’incontro di Camaldoli intervenne anche Romano Prodi, allora all’apice della sua parabola, per spiegare l'insufficienza del bipolarismo europeo. Secondo Prodi l'Internazionale socialista e il popolarismo erano ormai insufficienti, la contrapposizione tra socialisti e conservatori era diventata nominalistica, la fine del comunismo costringeva a rivisitare tutte le tradizioni di pensiero. La prospettiva di Prodi era quella di costruire assieme a Blair e a Clinton – entrambi ‘democratici’ e ‘liberali’ direi senza alcun dubbio (e Blair per di più cattolico proveniente dall’esperienza dei cristiano sociali inglesi) - un nuovo modello democratico di coalizione, scrivendo così la parola fine alla stagione delle democrazie cristiane e delle socialdemocrazie. Mi pare che Monaco fosse presente a quell’incontro. Si era reso conto della deriva neoliberale di Prodi? Forse il Professore era stato manipolato dai fucini degli anni ’80? Nelle settimane scorse, superando rancori personali, perplessità contenutistiche e incompatibilità antropologiche, ha fatto l’unica cosa possibile: è stato coerente e ha detto sì.   I cattolici ‘adulti’ sono per le riforme In generale – questa la stupefacente scoperta di Monaco - ci sono molti più cattolici ‘adulti’ in Italia, nel tessuto profondo del paese, di quanti totem conservatori ci siano nel suo pantheon. In primo luogo, i fucini, una minoranza intellettuale e riformatrice che, negli anni della transizione, con lo stile della mediazione culturale, ha osato interpretare la parte più avanzata del cattolicesimo democratico, ha tratto ispirazione dal contributo di pensatori europei di diversa provenienza alla ricerca di una felice contaminazione progressista, ha dialogato con i riformismi europei portando in Italia il meglio di quelle tradizioni. Un vero incubo che ancora oggi scompiglia il sonno tranquillo dei moderati di provincia. Le grandi organizzazioni di ispirazione cristiana - proprio sulla scorta di una profonda ‘coscienza costituzionale’ - nel 2001 hanno contribuito, tra l’altro, all’introduzione del principio di sussidiarietà nell’articolo 118, ultimo comma, della Costituzione, una norma che posta nella seconda parte della Costituzione, ma capace di inverare i contenuti dell’articolo 2 sulle formazioni sociali e l’articolo 3 sull’uguaglianza e il pieno sviluppo della persona umana. Lo hanno fatto con le grandi organizzazioni di ispirazione laica com’è giusto che sia in un paese che vuole diventare moderno. Quelle stesse organizzazioni, in assoluta coerenza, hanno sposato oggi la riforma Boschi, lasciando la bandiera del no alle associazioni cattoliche più integraliste, dal Family day in giù. Come mai? Per un motivo semplice: la riforma Boschi è coerente con alcuni obiettivi generali che le organizzazioni dei cittadini perseguono da anni e che la politica italiana si è data a più riprese (smentendosi poi per autodifesa): 1. rendere il lavoro delle due Camere più ordinato, rapido, efficace: in pratica simile a quello di tutti gli altri paesi occidentali; 2. ridare al Parlamento la sua dignità, rafforzando il modello di democrazia parlamentare scelto dai costituenti: in tal modo aumentando l’accountability degli eletti e del Governo, cioè di tutti coloro che esercitano delle responsabilità e devono renderne conto ai cittadini; 3. valorizzare il punto di vista dei territori, non con la moltiplicazione di funzioni e competenze inutili, ma integrandolo a pieno titolo nel dibattito nazionale: elevato, in pratica, al livello del Parlamento, nel contesto di una Camera interamente dedicata alla valutazione delle politiche pubbliche; 4. dare stabilità al Governo, al fine di permettere alla maggioranza scelta dai cittadini di realizzare il programma per il quale è stata votata e all'Italia di pesare nel contesto europeo e internazionale; 5. rafforzare una serie di garanzie (come quelle per l'elezione di alcuni organi come il Presidente della Repubblica o la Corte costituzionale) e accrescere gli strumenti partecipativi (dalle iniziative di legge popolare ai referendum abrogativi, propositivi e di indirizzo) attraverso i quali i cittadini avrebbero potuto contare di più nei processi decisionali.   Coscienza costituzionale e falsa coscienza In definitiva, contrariamente alla propaganda della post-verità, abbiamo avuto l’opportunità di votare per una riforma che rispettava e rafforzava la forma di governo parlamentare scelta dai padri costituenti e migliorava il funzionamento delle istituzioni che devono applicare i principi scolpiti nella prima parte della Costituzione. Parliamo di obiettivi chiari, semplici, pragmatici (tanto che, quando Monaco parla di “un certo approccio idealista, tipicamente cattolico, associato a un deficit di cultura istituzionale” ci sembra che parli di se stesso). Una splendida incarnazione di ‘coscienza costituzionale’. Una coscienza capace di comprendere che la Costituzione non è un testo sacro, ma un testo storico prodotto dagli uomini che richiede una manutenzione ordinaria (come d’altra parte essa stessa prevede) nella logica di un pragmatismo carico di rispetto e di valori. Che se le regole e le istituzioni non funzionano bene non puoi tutelare i diritti. Che il governo non è un nemico dei cittadini, ma lo strumento attraverso il quale si realizzano le politiche pubbliche che originano dai programmi che gli elettori hanno votato. Che la democrazia competitiva non ha nulla a che fare con la finanza internazionale o con il complotto neoliberista, ma è un cardine del costituzionalismo moderno. Rispetto a tutto ciò chi ha parlato di deriva autoritaria è portatore di una ‘falsa coscienza’, non soltanto perché si è reso autore di una bufala sesquipedale che sta sullo stesso piano delle scie chimiche, ma soprattutto perché è responsabile di aver mentito spudoratamente ai cittadini pur di strumentalizzarli contro il premier di turno. Un atteggiamento assai grave perché, nell’esplodere di populismi plurimi e di diverso conio, il riformismo è sempre più necessario. Alla fine, nel contesto dato, il disegno della riforma Boschi è stato respinto dai cittadini. Ma non sono affatto sicuro che gli italiani abbiano chiuso definitivamente la porta alle riforme. Cari conservatori, restate vigili.

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