Vittorino Ferla su lavoro e diritti (da Gazebos)
Lavoro e diritti: se la sinistra finisce al museo… Vittorino Ferla La riforma del mercato del lavoro di cui si discute in questi giorni è una nuova prova per le sorti di una sinistra moderna in Italia. Alcune domande - solo apparentemente generiche - spiegano l’enormità della sfida: a che serve la sinistra? In che modo può continuare a difendere l’uguaglianza e l’equità? A quali categorie deve rivolgersi oggi per restare (ridiventare) se stessa? E via elencando. In sostanza, si tratta di ragionare sulla relazione conflittuale tra la rappresentanza politica (in crisi cronica a partire almeno dagli anni Settanta del secolo scorso), l’evoluzione sociale, culturale ed economica nel tempo della globalizzazione e l’adeguatezza della governance di sistemi politici sempre più complessi, ma sempre meno efficaci. Molti analisti, in questi anni, si sono esercitati su questi temi. E mi paiono corrette quelle analisi che vedono nella crisi del partito novecentesco e delle macchine burocratiche pubbliche l’ultimo episodio di quella transizione al ‘post-fordismo’ che ha segnato gli ultimi trent’anni. Come spiega Marco Revelli in Finale di partito, “le macchine organizzative novecentesche hanno tutte le stesse caratteristiche (siano esse Fabbriche o Eserciti, Partiti o Chiese…): una tendenza intrinseca al gigantismo, a incorporare masse ampie di uomini in modo stabile, sistemandoli in strutture solide e permanenti”. Quel modello di macchina organizzativa, fondato sull’ambizione di un’integrazione ‘verticale’, sulla formalizzazione di tutti i ruoli, sul primato della burocrazia, entra in crisi a partire dalla fine degli anni Settanta, con i primi segnali del passaggio dal ‘fordismo’ al ‘postfordismo’. Oggi siamo in cerca di flessibilità organizzativa, i grandi complessi industriali sono destrutturati, abbiamo bisogno di sciogliere certi vincoli e di alleggerire il peso delle regole, la burocrazia orientata al fedele rispetto delle procedure è diventata una gabbia. Il mutamento non tocca solo le imprese, ma anche le istituzioni pubbliche e la politica. E il cambiamento non incide solo sull’organizzazione: per definizione ‘pesante’, concepita e costruita non solo per gestire i processi istituzionali della rappresentanza (le elezioni), ma soprattutto per incorporare, orientare e “rieducare” interi pezzi di società, per formarne la cultura e strutturarne la vita comunitaria, assicurando omogeneità e fedeltà. Questo sono stati i partiti e i sindacati, apparati in qualche modo fordisti. Il cambiamento incide anche sul know how di questi soggetti, sulla loro attrezzatura ‘ideologica’, sugli strumenti da mettere in campo per la soluzione dei problemi della vita quotidiana dei cittadini. Uno degli attrezzi ideologici che il tempo ha reso sempre meno utile è proprio il ‘laburismo’: l’idea di una Repubblica fondata sul lavoro, l’idea che categorie di lavoratori (magistrati, insegnanti, medici) siano in se stesse lo strumento (costituzionale) per garantire i diritti, l’idea che il lavoro sia una ‘proprietà’ (come la macchina o la casa) di cui disporre per la vita e magari lasciare in eredità ai figli. Tutto questo oggi non esiste più. E non è affatto detto che sia un guaio. Per anni abbiamo avuto ospedali che giravano intorno alla tutela dei lavoratori della sanità invece che intorno al diritto alla salute dei pazienti; scuole e università pensate per garantire il quieto vivere degli insegnanti invece della formazione degli studenti; tribunali organizzati come cittadelle fortificate per i giudici invece che luoghi per tutelare i cittadini dalle ingiustizie; amministrazioni pubbliche sclerotizzate per coprire dirigenti e funzionari senza competenze né programmi di lavoro invece che orientate a offrire servizi ai cittadini. Infine, ultimo ma non ultimo, un mercato del lavoro impostato per garantire alcune – poche – categorie di lavoratori sindacalizzati e iperprotetti che ha progressivamente lasciato fuori la gran parte della popolazione attiva e giovane e le donne. Oggi l’Italia è questa qui. Il Paese delle mille corporazioni protette che ogni giorno conducono la loro battaglia per difendere le posizioni acquisite. A farne le spese sono quelli che cercano di entrare nel mondo del lavoro e delle professioni o che desiderano ricevere servizi di qualità dalle amministrazioni pubbliche. La sinistra storica ha delle responsabilità storiche e culturali straordinarie in questa situazione: è diventata spesso il partito delle corporazioni e dei garantiti e ha discriminato i cittadini, i consumatori, i disoccupati. Con il tempo, quelle categorie di protetti si sono assottigliate. Con esse, si è ridimensionato l’universo di riferimento della sinistra. La sinistra stessa è diventata un club di anime belle che, se da una parte fa le campagne per i poveri e i diseredati dell’umanità, dall’altro, in casa propria, difende le piccole caste e si dimentica di garantire il futuro dei giovani in cerca di occupazione. E così, se Ichino e poi Renzi (che copia Ichino) parlano giustamente di apartheid per definire il dualismo del mercato di lavoro italiano, la sinistra storica - invece di avviare con coraggio quelle riforme che altre sinistre europee hanno fatto (basti pensare a Blair e Schroeder) e che oggi fanno viaggiare a tutt’altro ritmo le società inglese e tedesca – si rinchiude nella conservazione dello status quo. Ecco, una sinistra così è un ferrovecchio arrugginito, buono per essere esposto in un museo sulle conquiste del Novecento, ma del tutto inadeguato a rispondere alla domanda di felicità e di benessere dei nostri contemporanei.
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