Uomini contro? di Luciano Iannaccone
C’è generale consenso nel giudizio complessivo sulla situazione politica italiana del voto e dopo il voto: Salvini e i 5 Stelle (pur con promesse impossibili, pena il dissesto dello Stato italiano) hanno saputo intercettare la protesta e le attese della maggioranza degli italiani e mettersene alla testa. La lunga crisi ha pesato più dei non pochi segnali di ripresa, l’incertezza del futuro più della modesta accelerazione dei consumi, le paure più delle speranze. Il senso di impotenza davanti a timori e pericoli veri e presunti ha accomunato cittadini in condizioni economiche articolate e diverse in un voto di protesta e di cambiamento. Si può e si deve discutere, a proposito di questioni primarie come il lavoro (più di un milione di posti di lavoro in più) e degli arrivi via mare oggi, della distanza tra il “reale” da una parte e il “percepito” (che nasce anche da spregiudicata propaganda) dall’altra. Ma è indiscutibile che quest’ultimo ha mobilitato uomini e donne “contro”, di cui è eco sinistro e assolutamente illegittimo la sguaiata tribù del livore e dell’odio presente sui social. Caratteristica di questo posizionamento di tanti cittadini è un individualismo atomistico, con cui cercano di connettersi e dialogare i vincitori che oggi ci governano. Occasionale è infatti il legame con altri che la pensano e hanno votato nella stesso modo, più stabile è la comunicazione che Salvini e Di Maio, stabiliscono con i social e con iniziative politiche e di governo dimostrative, dai migranti al “decreto dignità”. Ed è significativo che questo coinvolgimento si traduca in consenso anche quando non ce ne sarebbero i motivi: al vertice europeo Conte in particolare, ispirato da Salvini, ha difeso molto male le sacrosante ragioni dell’Italia, affossando senza neppure saperlo un possibile iter di integrazione della zona euro, esponendosi alla reazione ostile degli altri e non portando a casa sostanzialmente nulla, anzi peggio. Ma è bastata la “fake-news” dei pugni sul tavolo che mettono in riga le ostili “potenze straniere” per comunicare che questa volta ci siamo fatti rispettare. C’è infatti un bisogno disperato di credere che le cose siano andate davvero così, alla faccia della “perfida Albione” di turno. Come quando Salvini grida alla “Lega messa fuorilegge” perché la Cassazione consente il sequestro cautelativo di 49 milioni di euro che, secondo la sentenza di primo grado, la Lega ha percepito indebitamente, con attestazioni truffaldine, sottraendoli al Parlamento, cioè al popolo italiano. Una bella “faccia di tolla”, come si dice a Milano. Di Maio invece cerca consenso con lo sgangherato “decreto dignità”, per molti aspetti negativo e dannoso, e lo fa con parole ignare del consiglio di Leopardi: “Il più certo modo di celare i confini del proprio sapere, è non trapassarli”. Il grande Giacomo non si è soffermato sui danni collaterali, che sono purtroppo a nostro carico. Timore, solitudine e rancore contro nemici, numerosi e che cambiano a seconda delle circostanze : l’Oltralpe, l’oltremare, la sinistra buonista, ticchettara e senza scusanti (questa sì) dei quartieri alti, ma anche le multinazionali ed i vicini di casa che non la contano giusta. Se ci fosse una mega-assemblea di elettori dei partiti di governo, i contrasti, ma anche le ostilità, insorgerebbero: perché ognuno si contrappone agli altri, che non sente sodali. Lo stesso, beninteso, succederebbe (ed infatti succede) in casa PD. Ma “Ogni regno diviso in se stesso va in rovina. Ogni città o casa in sè divisa non potrà reggere” (Matteo, 12, 25). Vale per un partito o movimento, vale drammaticamente per l’intero Paese: ma come possono uomini “contro” diventare “per”, come può la paura lasciare campo a una ragionevole speranza ? Come ritrovare, pur nel dissenso, la possibilità e le ragioni della convivenza civile ? La nostra vera crisi nasce innanzitutto dal rifiuto della dimensione relazionale che ci lega agli altri di oggi, di ieri e di domani, e che si esprime in modo non esclusivo, ma fondamentale in quello che chiamiamo Paese: l’Italia, la nostra patria. Nata da una storia millenaria, amata nelle sue disgrazie da Dante, Machiavelli e Leopardi, propugnata come sogno di indipendenza ed unità nel Risorgimento fino a diventare prima Regno d’Italia nel 1861 poi Repubblica parlamentare nel 1946. Solo una riconosciuta identità nazionale può evitare l’inimicizia implacabile nella lotta politica, di cui si giovano gli astuti arruffapopolo. Identità nazionale vuol dire consapevolezza di un comune destino che muove, pur nella diversità delle situazioni e delle posizioni, alla solidarietà e a diritti e doveri comuni. Tra cui quello di cercare di confrontarsi con la realtà, rifiutando la droga delle illusioni. Solo così lo scontro politico più duro diventa positivo, senza diventa distruttivo, falso, miserabile. “Noi siamo da secoli calpesti, derisi, perché non siam popolo, perché siam divisi”: forse questo ragazzo di vent’anni, morto in battaglia a ventuno, ha qualcosa da dirci. Identità nazionale vuol dire anche superare la interessata ignoranza nei riguardo della nostra storia civile, almeno dall’Unità, dell’apporto dei nostri uomini migliori sia nella direzione politica che nel contributo di pensiero e azione al cammino dell’Italia. E non rimuovere ciò che è assai duro riconoscere, cioè che nella fase finale della cosiddetta prima repubblica, il duello tra i partiti di governo si è tradotto in una abnorme crescita della spesa pubblica corrente a fine di consenso e di clientela, denunciate ma sostanzialmente non contrastate dal maggior partito di opposizione. Dal “miracolo economico” e dalle conquiste dello stato sociale da quello rese possibili si è passati, almeno dalla fine degli anni settanta, ad irresponsabili disavanzi pubblici che hanno portato il debito a raddoppiare in un quindicennio oltre il 120% del pil e parte significativa della direzione politica, economica, amministrativa, culturale e sociale del Paese ad abdicare al proprio ruolo ed ai propri doveri nei riguardi delle generazioni future (la stessa cosa che qualcuno vorrebbe fare oggi). E a degradare in consorterie indegne di un Paese civile ed apparentemente irriconducibili all’efficienza e all’interesse generale, come dimostra il loro persistente presente. Il nuovo secolo è iniziato così gravato di un pesante carico per tutti gli italiani, ridotto sì dallo sforzo compiuto per l’entrata nell’euro, ma radicalmente inasprito dalla crisi del 2008 e tale da condizionare e limitare la ripresa dal 2014, reale ma insufficiente, e l’efficacia di riforme che si scontrano soprattutto con le consorterie di cui sopra. E’ questa Italia di cui dobbiamo assumerci tutti insieme la responsabilità, nel nome di una originaria solidarietà di popolo, che sola può avere la forza di combattere l’ingiusta arretratezza a cui ci siamo condannati. Ma ciò implica rinunciare alla droga delle bugie e delle illusioni, sia spacciata ieri e oggi dai partiti che consumata. Non solo per superare l’avversione e l’incomunicabilità attuale, ma anche per aprire alla speranza il duro e necessario confronto politico nei mesi che verranno, fino alle Europee del maggio 2019, in cui, a parere di chi scrive, deve essere sconfitta quella caricatura del vero interesse nazionale che è il nazionalismo versione selfie-muscolare. Le elezioni europee saranno decisive se, soprattutto in ogni Paese della zona euro, muoveranno alla presenza in campo di forze riformatrici che, proprio per promuovere ognuna il presente e il futuro della propria Patria, si colleghino prima del voto e così avvicinino e connettano le nazioni di cui sono parte. Esse prefigurano così il successivo lavoro in cui la negoziazione costruttiva fra i popoli e gli Stati disponibili, a partire dall’area euro, superi la fase critica attuale. E possa portare progressivamente a forme concrete e stringenti di unità economica, finanziaria, fiscale, geopolitica e militare che si traduca sia in un effettivo peso mondiale che in un aiuto alla crescita delle singole economie nazionali. Solo così l’Italia, con gli altri Stati dell’area euro convergenti, potrebbe progressivamente superare le proprie gravi debolezze, unendo alla crescita interna quella indotta dalla potente dinamica di investimenti privati e pubblici, mobilitata dalle politiche dell’area euro. Ma condizione preliminare è che gli italiani, o almeno molti di essi, dopo aver riconosciuto la realtà vogliano modificarla, per sé e per i propri figli, rigettando una politica fatta di inefficienza e di sussidi (e soprattutto la mentalità assistenziale e clientelare che la governa) che troppi vorrebbero prolungare ed addirittura accentuare. In Italia, al di là delle vicende interne del PD ( che comunque non può rinunciare al disegno riformatore di Renzi, pur depurato di errori e leggerezze, pena una drammatica involuzione massimalista) dovrà essere in campo una forza ampia, in collegamento con quelle europeiste di Francia, Germania, Spagna e degli altri Paesi convergenti, che sappia parlare agli italiani. Una forza che raccolga il centro e la sinistra riformatrice e che si definisca e sia autenticamente liberale. Solo una politica liberale infatti, può misurarsi vittoriosamente in Italia, in Europa e nel mondo, con i nuovi assolutismi e privilegi finanziari, economici e “di casta” da una parte e dall’altra con il “dispotismo clientelare” nascosto, quello italiano, sotto una variopinta , ma pericolosa sceneggiata paesana.
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