Lo stato nazione ci salva? di Giorgio Armillei

La gran parte della sinistra che sopravvive nelle democrazie avanzate si muove nel solco della incomponibilità di lungo periodo tra le istanze egualitarie della democrazia e quelle selettive, distruttive (e creative) del capitalismo. Dalle giovani promesse democratiche USA (lo squad) al nocciolo duro del corbynismo, dalla sinistra francese e a quella ex comunista italiana, sia dentro che fuori del PD, le profezie dei Piketty, degli Stiglitz e dei Rodrik sono quelle che fanno scuola: capitalismo, in particolar modo in tempi di globalizzazione, e democrazia non vanno d’accordo.

Ovviamente il tema ha un suo fascino politico permanente e costituisce per di più una stuzzicante sfida intellettuale. Dieci anni fa Michele Salvati condensò anni di riflessione in un libro che indagava esattamente questo snodo: la democrazia esige il mercato e la proprietà privata ma il mercato genera il capitalismo che contrasta con la democrazia. Come risolvere il puzzle? Il funzionamento e prima ancora l’espansione e il consolidamento delle democrazie sono sotto la minaccia del capitalismo? Salvati diceva di no ma esigeva la ricerca di un riequilibrio tra la marcia del capitalismo e l’indebolimento dei poteri democratici. Un riequilibrio da conseguire a livello globale visto che è a livello globale che il capitalismo non smette di avere successo. Ma come costruire questo riequilibrio senza scivolare nella ricerca di improbabili - e quelli sì realmente minacciosi - “governi globali dell’economia”?

L’ondata populista per un verso sembra aver spazzato via il tema ma per l’altro in qualche modo ne è una espressione e una conferma. La chiusura dentro le identità nazionali e l’assalto alle istituzioni europee sovranazionali esprimono in forme sommarie e impraticabili le reiterate critiche al capitalismo globalizzato come minaccia per le democrazie nazionali. L’arco tra populismo e nuova e vecchia sinistra sembra dunque chiudersi e si torna alla casella di partenza: capitalismo globalizzato e democrazia sono incompatibili?

Due studiosi di area angloamericana tentano di uscire dalla trappola o se si vuole di risolvere il puzzle. Democrazia e capitalismo non solo sono compatibili ma nella forma delle democrazie capitalistiche avanzate hanno dimostrato di funzionare in perfetta sintonia. Stabilità democratica, crescita della ricchezza e redistribuzione hanno viaggiato insieme ed esteso la loro sfera di influenza attraverso le successive ondate di democratizzazione del XX secolo. Democrazia elettorale, innovazione tecnologica e sviluppo capitalistico lavorano in sinergia. Certo le cose ogni tanto si complicano, come nella fase attuale nella quale da un lato le classi medie percepiscono severi segnali di incertezza e dall’altro il lavoro ad alta intensità di conoscenza produce effetti di spiazzamento per i ceti con più bassi livelli di istruzione, fino a disegnare nuovi cleavage politici tra liberalismo e neoautoritarismo.  Certo il modello non dà conto dei processi di formazione dell’intesa tra capitalismo avanzato e democrazia ma si occupa solo della loro stabilità una volta instaurati. Ma insomma per Iveresen e Soskice si può essere ottimisti, allo stesso tempo “tecno-ottimisti e ottimisti sociali”.

Cosa rende possibile tutto questo, ovvero questa sinergia tra democrazia e capitalismo? Il governo degli stati nazionali è il presidio di questa sinergia. Non i processi di governo sovranazionale, non il multilateralismo commerciale, non l’Unione europea, non le agenzie transnazionali produttrici di standard. La globalizzazione non riduce lo spazio di manovra degli stati nazionali, anzi lo esalta. Come l’ondata di globalizzazione dell’inizio del XX secolo si era infranta contro il muro del protezionismo stoltamente eretto per fini di protezione sociale, così al contrario la globalizzazione della fine del XX secolo ha potuto godere delle funzioni di garanzia e di integrazione del welfare state, un prodotto dello stato, anzi forse “lo stato” del XX secolo. Senza welfare state dunque non c’è globalizzazione: qualcosa di controintuitivo rispetto al più consueto “la globalizzazione distrugge il welfare”.

Tiriamo le prime rudimentali somme, consentendoci qualche forzatura. Per quadrare il cerchio, avrebbe detto Dahrendorf, siamo veramente costretti a restare nella gabbia dello statalismo? Sia nella forma semiutopica del governo mondiale sia in quella a più ridotta scala del welfare state formato XX secolo? Molti altri osservatori ci dicono di no e ce ne mostrano gli strumenti. A cominciare dall’esperimento dell’Unione europea nato per mettere economia e diritto al posto dello stato nazione. Passando per quella che Sabino Cassese chiama la polity globale, nella quale emerge persino una forma di diritto misto, un po' pubblico e un po' privato, generato da istituzioni orizzontali, multilivello, con molti e diversificati ordinamenti settoriali. Una cosa del tutto diversa dallo stato nazione, qualunque ne sia la sua declinazione territoriale. Per finire poi con il trionfo economico della dimensione urbana, dalle città medie alle città metropolitane, che si muove oltre gli stati e spesso anche contro gli stati nazionale e loro opinioni pubbliche, come nel caso di Brexit. Città che, come anche Iversen e Soskice ammettono, vedono crescere il potere delle loro istituzioni politiche in forme che certo mettono alla lunga sotto scacco il centralismo verticale degli stati nazionali.

È questo il cleavage emergente. Da una parte il sistema di interessi degli stati nazionali sovrani, dall’altra la polity globale fatta di governi statali, città, organizzazioni politiche sovranazionali, organizzazioni di governance globale private. 


* immagine tratta da www.indiatoday.in 

 

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