Guadagnare tempo. Ma quanto? di Giorgio Armillei
Dopo due
mesi di governo Conte 2 alcune dinamiche sembrano stabilizzarsi. L’incontro tra
M5s e PD somiglia sempre meno a un’alleanza emergenziale per impedire la deriva
sovranista anti UE e sempre più a un’alleanza che cerca di dar vita a una
coalizione di sinistra. In questo quadro l’episodio Umbria resta un incidente
causato principalmente dalla irrimediabile, conservatrice e ottusa esperienza
di governo della Giunta Marini Paparelli del PD. Tanto che Zingaretti e Orlando
insistono per ripetere il modello PD-M5s in Emilia Romagna. Dall’altra parte
Salvini, superate le prime settimane di shock, vinte le elezioni in Umbria e
moderati appena i toni populisti, ha gioco facile nel completare il
prosciugamento dell’elettorato populista del M5s e fare il pieno degli
scontenti. Sfruttando anche casi come quello dell’ILVA dai quali non si può
certo chiamare fuori. L’unico suo problema potrebbe diventare la crescita di
FdI, junior partner sì ma dotato di potere di coalizione. Chi invece non ha più
nulla con cui ricattare potenzialmente Salvini è ciò che resta di Berlusconi.
Se è vero,
come è vero, che la crisi di agosto non ha scalfito il peso prevalente della
frattura tra populisti e liberali rispetto alla frattura tra destra e sinistra,
chi non ha ancora trovato un suo stabile profilo è l’area riformista liberale
della politica italiana. L’unico che sembra muoversi di nuovo a suo agio in
questo quadro è Renzi: ma si tratta di un muoversi ancora tutto ed
esclusivamente tattico. Per il resto sia i liberali in maggioranza sia i
sopravvissuti liberali all’opposizione, tutti ancora in FI, non trovano il modo
di contare sulle singole policy. Partiti da una intuizione più che ragionevole,
costruire un cordone sanitario intorno a Salvini usando tutto ciò che si poteva
usare e facendo finta (FI) di non essere d’accordo, si trovano giorno dopo
giorno sempre più intrappolati. I primi in una maggioranza che fa politiche
tutt’altro che liberali. Claudio Cerasa, uno dei più lucidi sostenitori
dell’operazione Conte 2, si è trovato costretto qualche giorno fa sulle pagine
de il Foglio a fare l’elenco sempre più lungo dei cedimenti del PD: giustizia,
fisco, ambiente, rifiuti, aeroporti, politiche industriali, quota 100, reddito
di cittadinanza. E da ieri il caso ILVA. Quanto ai secondi, con l’eccezione
delle prese di distanza sul caso Segre, appare sempre più alto e forte un magro
e deludente “non pervenuti”. Dunque, è vero: la deriva anti UE e antieuro è
stata al momento arrestata. E si tratta di un risultato cruciale, condizione
necessaria per qualsiasi strategia. Quanto al resto prevale però la continuità
tra il Conte 1 e il Conte 2.
Stefano
Ceccanti, un altro tra i più efficaci nel difendere con ottimi argomenti gli
obiettivi di medio periodo di questo governo, accende i riflettori sulle
politiche istituzionali. Qui le cose procedono come da accordi: si è ridotto sì
il numero dei parlamentari, secondo la policy decisa del governo gialloverde,
ma si sono contemporaneamente avviate le modifiche costituzionali e legislative
necessarie a rendere efficace e costituzionalmente sensato il nuovo assetto
numerico di Camera e Senato.
Fin qui ci
siamo, con Stefano Ceccanti il confronto è quotidiano. Solo che delle due
l’una. O riteniamo ci sia e permanga un’emergenza (far traballare
l’appartenenza dell’Italia all’UE era e resta fuori dai confini costituzionali,
questa la vera emergenza) e quindi convenga rafforzare tutti i contrappesi
costituzionali possibili. Perché allora omologare Camera e Senato – stesso
elettorato attivo, stesso elettorato passivo, unico voto di fiducia – fino a
farne due Assemblee speculari in un’ottica di democrazia decidente e
maggioritaria, quella che funziona solo quando nella società sono assenti
fratture capaci di generare crisi di legittimazione dell’intero sistema
politico? Oppure riteniamo che l’emergenza sia in via di superamento e che la
lezione estiva sia servita a Salvini per moderarsi e rientrare nei confini
costituzionali. Qualcuno pensa anche di portarlo nel PPE. È giusto dunque
procedere verso una razionalizzazione dell’assetto del Parlamento e
confezionare una legge elettorale coerente con quella razionalizzazione. Ma
allora perché i riformisti liberali del PD dovrebbero stare in una maggioranza
così poco liberale visto il progressivo superamento dell’emergenza?
Conclusione. I riformisti liberali si sono sacrificati per scongiurare la deriva salviniana rispondendo con prontezza al capolavoro tattico di Renzi. Ora però politics e policy tornano a distinguersi e quei riformisti liberali rischiano di restare intrappolati. Si può marciare divisi per colpire uniti ma occorre decidere di farlo, cercando ciò che unisce e non ciò che divide, accettando i costi della guerriglia renziana e soprattutto cominciando a stabilire come e quando lanciare la vera sfida elettorale a Salvini. Arrivare al 2022 potrebbe essere impossibile: quanto tempo occorre ancora guadagnare (prendere un po' di tempo, scrive ancora Cerasa) per rendere credibile la proposta liberale senza gonfiare l’elettorato populista?
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