da Orvieto-Introduzione a Libertà Eguale di S.Ceccanti

  2 dicembre pomeriggio di Stefano Ceccanti   Siamo a un anno dal 4 dicembre. E’ comprensibile dopo una sconfitta avere la tentazione di non riaprire un dossier doloroso, ma non possiamo permettercelo per due motivi di fondo.  

  1. Il primo è relativo alla forma di governo.
  1.1 Vedere   Le forme di governo con rapporto fiduciario possono funzionare bene secondo due modalità alternative. La prima è quella che eravamo abituati a vedere all’opera in Germania e in Spagna: un numero limitato di partiti nella Camera politica, alcuni dei quali in grado di stipulare fra loro alleanze relativamente stabili e prevedibili. Ma l’accresciuta frammentazione elettorale (figlia di società sempre più complesse) crea problemi anche in quei Paesi, come aveva segnalato da tempo Carlo Fusaro. Figurarsi da noi, dove il sistema dei partiti è da anni sempre meno solido, direi è addirittura terremotato. La seconda modalità consiste nel sovrarappresentare deliberatamente la minoranza più forte. Una variante di questa è il sistema neo-parlamentare che abbiamo nei Comuni e nelle Regioni, ispirato al modello ideato da Maurice Duverger nella Francia del 1956. L’elezione diretta del vertice dell’esecutivo agganciata a una maggioranza parlamentare. L’elezione diretta concentra il voto e dà un elemento coesivo iniziale alle coalizioni; il meccanismo del “simul stabunt simul cadent” lo stabilizza nel tempo. Qualcosa di analogo prevedeva il cosiddetto “combinato disposto” tra Italicum e riforma costituzionale: in quel caso si era più flessibili sul rapporto fiduciario (che restava inalterato, tranne per la fiducia limitata alla sola Camera dei deputati), ma era più rigida la formula elettorale (perché il premio andava alla lista invece che alla coalizione). Non è quello però l’unico modo di sovrarappresentare la minoranza più forte; nel 1956, accanto al modello Duverger la sinistra democratica francese discusse anche del modello Vedel, molto simile a quello francese dopo la riforma del 2000. Vedel voleva un’elezione contestuale non del Premier ma del Presidente insieme a quella della Camera politica e per un quinquennio. Nel 2000 appunto, la Francia, per evitare le coabitazioni, si è avvicinata al modello Vedel col quinquennato presidenziale; non ha stabilito una stretta contestualità, ma due elezioni in sequenza (prima quella presidenziale, poi quella dell’Assemblea nazionale); ciò determina una logica competitiva che favorisce il modellarsi della maggioranza sul Presidente neo-eletto (e fino ad oggi è sempre stato così: perfino – in ultimo – quando il Presidente è risultato espressione di un partito appena fondato, che poi ha vinto – e bene – le elezioni per l’Assemblea). Perché questo dibattito si sviluppò originariamente proprio nel 1956? Perché alle elezioni si erano presentati quattro schieramenti costituitisi prima del voto: una coalizione di centro-destra, una di centro-sinistra, una lista di estrema sinistra e una populista. Vi ricorda qualcosa? L’esito fu talmente incerto da dar vita ad una legislatura sin dall’inizio travagliata. E’ evidente che se non si ha né un sistema dei partiti che funzioni in coerenza con la forma di governo né modalità di sovrarappresentazione della maggiore minoranza, il sistema può, al massimo, sopravvivere stancamente. Lì sopravvisse due anni.   1.2 Giudicare   Quali alternative si possono prospettare nel caso italiano? Possiamo e dobbiamo certo scegliere la strada volontaristica, battendoci nel paese per avere quel 40% dei voti che di fatto garantirebbe una maggioranza autosufficiente al centrosinistra. Questo sta nelle nostre mani. Tuttavia è bene non eccedere in slanci propagandistici: l’ottimismo della volontà deve andare di pari passo col pessimismo della ragione. L’obiettivo va perseguito con tenacia, ma non possiamo presentarlo come facile da raggiungere. E sarebbe ancora peggio per il Paese se lo conseguisse l’altra coalizione più forte, quella di centrodestra, perché la sua eterogeneità interna darebbe solo la parvenza momentanea della tenuta del sistema. Dire questo non significa affatto svalutare la nuova legge elettorale che ha ridotto vari aspetti negativi e dannosi della normativa previgente, a cominciare dalla preferenza unica sulla folle dimensione regionale al Senato, mentre tutti stiamo vedendo cosa significano le preferenze in un ambito ben più ristretto, quello provinciale, per esempio nelle regionali siciliane. Per questo si tratta da un lato di percorrere necessariamente la via volontaristica, dall’altro di riaprire il dossier istituzionale. Possibilmente anche prima del voto, già nei programmi elettorali. In ogni caso dobbiamo sapere che la dovremo probabilmente riaprire dopo, per cui occorre essere preparati anche a questo scenario. Quali alternative per questa riapertura? Scartiamo anzitutto una prima soluzione, quella presidenziale all’americana. Non si può recidere il rapporto fiduciario sulla base di istituzioni separate secondo un modello presidenziale perché esso, per funzionare, richiede un rapporto pragmatico tra Presidente e eletti in Parlamento. Senza questa flessibilità, che un sistema dei partiti come il nostro, con la nostra cultura politica non garantirebbe, l’istituzione Governo (con la G maiuscola) non sarebbe in pericolo, come nei sistemi basati sul rapporto fiduciario, ma tuttavia il governo effettivo (con la g minuscola) sarebbe paralizzato dai veti reciproci. (Del resto anche negli USA i presidenti fanno sempre più fatica a collaborare con Congressi nei quali si va diffondendo una partigianeria di tipo “europeo”) Scartiamo poi, per ragioni politiche, una seconda soluzione, quella del modello neo-parlamentare perché non credo che si possa riproporre oggi il modello con cui abbiamo perso un referendum. Resta quindi a disposizione solo la ripresa integrale del modello francese post-2000, semipresidenzialismo e doppio turno di collegio, che già aveva raccolto varie adesioni nei lavori della Commissione di esperti del Governo Letta sulla base di un testo predisposto dal collega Beniamino Caravita. Contro di esso si possono proporre due argomenti. Il primo è istituzionale, è l’argomento secondo il quale tale modello ci priverebbe al vertice dello Stato di una figura super partes. Questo argomento non è risolutivo. Il nostro Presidente non è costretto a prendere decisioni politiche opinabili (quali sono invece, senza ombra di dubbio, la scelta in senso pieno di un Presidente del Consiglio invece di un altro e quella della data delle elezioni in un contesto in cui vi potrebbero essere varie soluzioni) solo quando il sistema dei partiti funziona bene ovvero solo se decisioni politicamente rilevanti di questo genere sono prese come eccezioni alla regola. In fondo dopo il 1994 (con l’eccezione del 2013) il primo governo è sempre nato direttamente legittimato dagli elettori attraverso i loro parlamentari; solo a un certo punto della legislatura interveniva la supplenza presidenziale. Ma se invece il Presidente diventa stabilmente colui che è di fatto costretto a costruire le maggioranze di governo che i partiti da soli non riescono a costruire egli finisce con non poter essere più un garante e si pone il problema di una diversa legittimazione anche a poteri invariati. E’ perché esercita già quei poteri che deve essere eletto direttamente: non che si vuole eleggerlo direttamente perché li eserciti! Non a caso la Francia passò all’elezione diretta solo nel 1962 dopo che il Presidente aveva già esercitato quei poteri dal 1958. Si tratta quindi di eleggere un Presidente a poteri invariati. Il secondo argomento invece è più consistente ed è di tipo politico. L’Italia è l’unico Paese in cui vi è una sorta di “populismo centrista”, come ci spiegherà bene Salvatore Vassallo, mentre negli altri paesi le forze populiste sono chiaramente collocabili su un estremo o sull’altro. Un sistema che sovrarappresenta la minoranza più forte col metodo più naturale, quello di un secondo turno, finisce altrove per condurre alla sconfitta pressoché certa dei populisti perché non hanno capacità espansiva nel turno decisivo. Viceversa, facendosi spazio in mezzo tra due poli nati e cresciuti l’uno contro l’altro, il populismo italiano può riuscire a vincere i ballottaggi perché può raccogliere parte non trascurabile dei voti del polo escluso. E’ quello che è successo in alcune città nel 2016 e nel 2017. Ed è la ragione per cui buona parte della classe dirigente italiana, dopo che era svanito l’effetto delle europee per il Pd e dopo i risultati in alcune elezioni amministrative, si era schierata contro il ballottaggio dell’Italicum che rispondeva alla stessa logica. Dobbiamo riconoscere che è un rischio vero. Tuttavia siamo davvero sicuri che la conquista del Governo nazionale di una forza che pure per tanti aspetti ha caratteristiche eversive, nel senso chiarito da De Giovanni, sarebbe davvero in grado di snaturare il sistema, nel policentrismo di contrappesi che caratterizza il sistema italiano, dalla magistratura alla Corte costituzionale, a Comuni e Regioni, all’Unione Europea? E poi soprattutto, qual è l’alternativa? Siamo sicuri che le forze populiste non crescerebbero sempre di più di fronte a Governi deboli e instabili, visto che si alimentano non delle proprie virtù (piuttosto difficili da vedere) ma dei vizi altrui? Credo quindi che, soprattutto per questo, sia un rischio da correre, pur rendendomi conto delle obiezioni.   1.3 Agire   Come realizzare questo progetto? Se il centrosinistra vincesse le politiche da solo, lo scenario comunque migliore, bisognerebbe ragionarne, ma senza precipitazione. Se invece, disgraziatamente, dovesse vincere da solo il centrodestra, è probabile che l’eterogeneità interna esploderebbe presto e quindi il tema tornerebbe presto in agenda; speriamo che al paese sia risparmiata questa prova, già sperimentata nel 1994 e nel 2011. Se infine il risultato fosse ambiguo, senza esito chiaro, ed è lo scenario più probabile, il nodo si riproporrebbe invece subito. Sarebbe del resto poco sensato rivotare dopo poche settimane, come si sente irresponsabilmente dire, con la stessa legge. Sistemi a dominante proporzionale, a distanza di poco, non danno risultati sensibilmente diversi: l’abbiamo visto in Spagna. La formazione di coalizioni emergenziali, in quel caso, potrebbe essere e andrebbe concepita solo come momentanea convivenza per dar vita a un sistema che poi consentisse di separarsi alle elezioni successive. Ciò, oltretutto, ridurrebbe il rischio di avvantaggiare i populisti, rispetto a grandi coalizioni permanenti. Non quindi una coalizione conservatrice per difendere il sistema dai barbari, ma una coalizione per la riforma francese integrale sapendo di andare al referendum confermativo (ove dovesse esserci), con un quesito stavolta più chiaro, sull’elezione popolare diretta del Presidente.    
  1. Il secondo tema è quello del tipo di Stato.
  2.1 Vedere   Il rapporto centro-periferia non è statico. E’ partita coi referendum veneto e lombardo e con l’iniziativa emiliana l’attuazione del regionalismo differenziato. In sé questa è una cosa positiva: è difficile sostenere che a priori 15 Regioni debbano essere del tutto identiche per poteri e competenze. In ogni caso quella scelta è stata fatta nel 2001 ed è impossibile trascurare una richiesta di attuazione. Tuttavia è anche vero che applicare adeguatamente l’articolo 116.3 a forma di governo nazionale invariata è molto difficile per non dire impossibile. Quando si siedono da una parte un Presidente eletto con una maggioranza blindata di legislatura e un Governo nazionale strutturalmente debole si rischiano decisioni irrazionali perché c’è un’asimmetria di forza negoziale. Per di più in un Parlamento dove si svolgerebbe solo un confronto tra partiti e non anche tra Regioni, a causa del bicameralismo cosiddetto perfetto. E’ il problema che si è visto in Spagna dove si oscillava dal centralismo delle legislature in cui un partito aveva da solo una maggioranza assoluta alle fortissime concessioni delle legislature in cui invece gli esecutivi dipendevano dall’appoggio esterno di partiti regionalisti. Ricordiamoci che l’art. 116.3, come pure la riforma del Titolo Quinto varata nel 2001, erano originariamente parte del disegno della Commissione D’Alema, e questa prevedeva una forma di semipresidenzialismo al centro.   2.2 Giudicare   Anche a questo fine l ‘attuazione del 116.3 richiama la riforma della forma di governo nazionale, che dovrebbe essere già a buon punto di approvazione per poter essere davvero implementata senza timori. Richiederebbe anche per coerenza una trasformazione del Senato, ovviamente, anche in questo caso, per le medesime ragioni politiche, una trasformazione del Senato almeno in parte diversa da quella bocciata nel referendum. Siccome in quel caso era stata proposta una composizione mista, forse varrebbe la pena di ripartire da un modello più chiaro, quello più forte nel diritto comparato, il Bundesrat tedesco, che era stato presentato col disegno di legge 1310, primo firmatario il senatore Tonini.   2.3. Agire   Occorre tuttavia evitare di sommare nel medesimo momento (non solo nel medesimo quesito) queste due innovazioni, entrambe necessarie. L’esperienza dimostra che se si cumulano più temi nella stessa campagna l’opinione pubblica è spinta ad orientarsi secondo lo schema del voto di partito, annullando anche il consenso sulle singole proposte di merito. Il risultato del referendum è stato infatti conforme ai rapporti di forza tra le forze politiche mentre i sondaggi sui singoli aspetti di merito avevano registrato proporzioni capovolte. Non cambierebbe molto nemmeno lo spacchettamento dei quesiti in un’unica tornata. Occorre pertanto partire dalla riforma più urgente e su cui c’è una soluzione coerente ben mutuabile, quella della forma di governo (e del connesso sistema elettorale) francese, per poi trovare, in un secondo momento, la migliore soluzione per un nuovo Senato della Repubblica.  
  1. Una conclusione: il problema non è di sapere se questo tema tornerà in agenda, ma quando
  Quello di cui si discute in questa sede non è separato da ciò che si discute nelle altre due sessioni. Solo istituzioni rafforzate possono rendere l’Italia più protagonista nella riforma della governance Ue di cui si è parlato stamani e in grado di implementare in modo coerente le policies di cui si discuterà domani. Credo in coscienza di poter dire che il problema non è quello di capire se questo tema di aggiornamento forte delle istituzioni tornerà in agenda, ma solo quando. Con queste parole sto parafrasando un articolo del già citato Duverger dal titolo “Quand” che comparve su “Le Monde” del 7 marzo 1958. In quel momento era un’opinione molto isolata, come ricordava quaranta anni dopo il grande storico delle istituzioni René Remond nel suo volume “1958 le retour de de Gaulle”. Però l’1 giugno 1958 accadde, meno di tre mesi dopo. Nulla si ripete mai allo stesso modo e si può anche sperare che eventi traumatici come quelli non si verifichino. Però se per onestà intellettuale si ammette che il problema di uno stallo si possa porre, forse vale la pena di essere preparati anche per uno scenario di questo tipo: avanzando per tempo proposte forti e coraggiose.    

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