Per cosa votiamo domenica 26 maggio, di Giorgio Armillei

Oltre dieci
anni fa, con un formidabile uno-due – discorso al Congresso delle Trade Unions
del 2006 e discorso al Blenheim Palace del 2007 – Tony Blair squadernava le
ragioni per cui continuare a leggere la politica britannica e soprattutto
europea con gli occhiali della tradizionale distinzione tra destra e sinistra era
sbagliato e dannoso. L’asse che divide la politica si stava spostando. La
frattura tra destra e sinistra stava per essere sorpassata da quella tra
chiusura e apertura, tra nazionalismo e globalizzazione, tra sovranismo e
europeismo.
La
maledizione dell’Irak ha steso una polvere irrespirabile sulle cose fatte e
dette da Blair. Eppure il passaggio sul cambiamento della gerarchia nelle
fratture politiche era allo stesso tempo appropriato e profetico. La logica
inesorabilmente binaria delle elezioni presidenziali francesi del 2002 e dei
referendum olandese e francese sul Trattato per una costituzione europea del 2005
aveva già diluito la distinzione tra destra e sinistra. Le reazioni al decennio
della crisi 2007 sarebbero sfociate in un altro e diverso formidabile uno-due:
Brexit e Trump, nel tremendo 2016 chiuso dal No al referendum costituzionale
italiano, leggibile solo uscendo dello schema destra-sinistra. Primo tempo
della partita conclusa con la formazione del governo italiano nazionalpopulista
nel 2018. Ancora una volta destra-sinistra si dimostrava un asse recessivo.
Un recente
(aprile 2019) report dell’Institut Jacques Delors ci racconta ora di come il
riferimento ideologico e la collocazione lungo l’asse destra sinistra siano
progressivamente passati in secondo piano anche come principale spiegazione dei
comportamenti di voto in materia economica dentro il Parlamento europeo, a
partire dal 2004. Con un picco intorno al 2014, tra 1/3 e 1/4 del voto
parlamentare europeo si allinea infatti lungo l’asse europeisti vs sovranisti
che del genere apertura vs chiusura rappresenta una delle specie più rilevanti.
In altri termini, nella maggioranza relativa dei casi i parlamentari europei si
aggregano intorno criteri e orientamenti che non hanno più a che fare con la
distinzione tra destra e sinistra (dominante fino al 2006, cioè l’inizio della
crisi) ma si posizionano in relazione al rilancio o alla negazione dei principi
della società aperta condensati nella polity dell’Unione europea.
Dati sui quale riflettere non solo per il recente passato ma anche per il futuro che si
apre con l’elezione del nuovo Parlamento europeo. In modo inatteso e per altro infausto
(la crisi degli anni duemila) siamo di fronte a un processo di europeizzazione
della politica nazionale e di denazionalizzazione di quella europea. La
questione cruciale del voto di domenica prossima ruota infatti intorno al
futuro e alla missione fondamentale dell’Unione europea come polity
sovranazionale. La frattura è tra chi vuole mandare a Bruxelles e Strasburgo
parlamentari europeisti e chi vuole mandarci parlamentari sovranisti.
Secondario e in molti casi fuoriviante è andare ancora a caccia di destra e di
sinistra.
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