La sfida delle Settimane Sociali al Pd

La sfida delle Settimane Sociali al Pd: politica non invadente, democrazia decidente di Stefano Ceccanti Il Pd fa bene a promuovere un confronto sul documento della settimana sociale, sulla scia di analoghe iniziative, a cominciare da quella di “Libertà eguale”. Le questioni sollevate non possono infatti essere appaltate a possibili alleati né riservate ai soli cattolici del Pd, ma interpellano il partito in quanto tale, chiamato a rispondere laicamente alla sfida così riassunta nei giorni scorsi dal cardinale Bagnasco: “Una nuova classe politica, cristiana nei fatti e non nelle parole”. La presenza dei cattolici nella società italiana è particolarmente rilevante, specie tra gli elettori “centrali” nel sistema politico. Questo dovrebbe essere oggetto di attenzione in una fase in cui si è aperta una crisi di credibilità del centrodestra, regolarmente votata sin dal 1994 dalla maggioranza dei praticanti soprattutto per i limiti delle altre proposte che non per una convinzione profonda in positivo. Nel bivio attuale, che investe il Pd non meno di altre forze europee di centrosinistra all’opposizione, mobilitare il proprio elettorato tradizionale contando sulla smobilitazione del fronte opposto verso l’astensione, o la conquista di nuovo elettorato, interrogarsi su quel documento ha senso perché espressivo di questo secondo corno dell’alternativa. Gli elementi principali di sfida sono due. Il primo è quello della richiesta di una politica non invadente. Si afferma tra l’altro, con ampie citazioni del Magistero più recente, in un’ottica di poliarchia: “Oggi comprendiamo meglio che se nessuna delle manifestazioni di quel pluralismo sociale di cui s’è detto può vantare il monopolio di competenza sul bene comune (non la politica, non altre), ciascuna ha un contributo specifico da recare, e che, insieme a tutte le altre, ciascuna partecipa all’incessante opera di composizione nella quale un certo grado di competizione e persino di conflitto svolge un ruolo positivo e permanente.” Non c’è un monopolio del bene comune da parte di chi ha responsabilità politica. Esso risulta da un insieme di processi che vedono coinvolti, anche in forma competitiva, vari attori. Evidenti i riflessi di questo modo di vedere su questioni quale l’acqua o la scuola, con servizi pubblici integrati in cui le istituzioni svolgono primariamente un ruolo di regolazione prima che di gestione diretta. Così pure dal documento, in relazione alla globalizzazione, si ricava l’impossibilità di continuare a ragionare sul mercato del lavoro in termini di protezione sul concreto posto anziché in termini di flexicurity, senza l’ossessione di scontentare la propria constituency tradizionale. Questa è una sfida seria per il Pd perché in periodo di crisi economica, quasi per un riflesso condizionato, si tende in via difensiva a riscoprire più gli elementi tradizionalisti, statalisti, delle proprie culture di riferimento. Paul Ricoeur spiegava bene che la cultura personalista di matrice cristiana, rispetto alla crisi degli anni Trenta non restò affatto immune dal “catastrofismo iniziale” e dall’”eccitazione rivoluzionaria” che impregnò fascismi e comunismi. Vari filoni del cattolicesimo politico italiano, sin dalla Costituente, hanno affrontato con esiti diversi questo nodo. Non casualmente il documento tra i cristiani impegnati in politica cita solo Alcide De Gasperi e Luigi Sturzo e questo è tutt’altro che neutro rispetto alla sfida portata al Pd, su un terreno di cattolicesimo liberale poliarchico, fuori da quelle spinte stataliste che dentro la tradizione del cattolicesimo sociale sono anch’esse del tutto interne alla crisi della socialdemocrazia tradizionale. Il documento è poi chiarissimo, rispetto alle difficoltà di funzionamento del sistema, la seconda sfida, nel richiedere un completamento della transizione istituzionale secondo le logiche tipiche della democrazia competitiva. Una politica non invadente, soprattutto sotto il profilo della gestione, deve poi essere decidente sul suo ambito specifico di competenza per il bene comune e responsabile. Dagli elettori “centrali”, che formano larga parte del tessuto connettivo della comunità ecclesiale, non emerge quindi la domanda di soggetti politici “centristi” e monoculturali, ma di un sistema che in modo più limpido e più coerente spinga gli schieramenti alternativi a convergere in modo centripeto verso le istanze più profonde del Paese, assumendo l’orizzonte largo dell’agenda reale dei cittadini, credenti e non. Il federalismo solidale e la democrazia competitiva, come si chiarisce nel testo contro facili scorciatoie sostanzialistiche, non fanno direttamente le cose, ma sono indispensabili perché le cose si possano fare grazie ad un mandato chiaro chiesto agli elettori e in grado di essere mantenuto nella legislatura. Il Pd è nato anche per questo, deve solo trarne le conseguenze.

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