La quarta via, di Giorgio Armillei

Mentre politics e policy continuano a mescolarsi - dal che
il PD firma un armistizio sulla prescrizione che non si capisce quanto dipenda
dai suoi orientamenti di policy e quanto dall’urgenza tutta di politics di non
mandare per aria il governo Conte bis; la Lega che prima ha votato la
soppressione della prescrizione, un po' per convinzione un po' per convenienza,
ora spara contro Bonafede con cui governava fino a 6 mesi fa; Renzi fa il
campione di garantismo costituzionale ma voleva Gratteri ministro della
giustizia nel suo governo – diventa vieppiù complicato prendere posizione sempre
viva questione: destra contro sinistra significa ancora qualcosa nel
funzionamento del sistema politico italiano?
Qualcuno ha preso la palla al balzo delle elezioni regionali
in Emilia e in Calabria per emettere la sentenza: destra contro sinistra è
una dimensione ancora viva dello spazio politico e un asse intorno alla quale
ricostruire non solo il comportamento degli elettori ma la proposta politica di
partiti e leader. Altri più prudentemente ci dicono (il libro recente di Paolo
Segatti e altri) che non si tratta di stabilire una volta per tutte che fine
hanno fatto destra e sinistra quanto di capire quali sono i vettori del
comportamento degli elettori. E dunque di provare a vedere le cose con teorie
di medio raggio: ad esempio, cosa hanno significato le elezioni parlamentari
italiane del 2013 e del 2019? Non certo la sostituzione degli orientamenti
politici tradizionali con nuovi orientamenti, tanto per non ripetersi pensiamo
a cose tipo: apertura liberale vs chiusura nazionalista al posto di conservatori
vs progressisti. Quanto piuttosto la prevalenza di un atteggiamento di
repulsione verso la classe politica nazionale nel suo insieme e il conseguente
investimento fiduciario in una proposta politica nuova, M5s e in qualche misura
Lega di Salvini, senza dare eccessivo peso ai contenuti di policy.
Insomma, si sceglie M5s (fino all’estate 2018) e Lega di
Salvini (dall’autunno 2018) non perché si è populisti e nazionalisti ma perché
non c’è più nessuno cui dare fiducia nell’arco dei partiti del bipolarismo. La temporanea
frattura dominante è diventata quella del giudizio sulla classe politica del PD,
di Forza Italia e delle sue varianti. Una classe politica colpita da una
spaventosa crisi di autorità. Una tesi nella quale si incunea una seconda
ricostruzione che solo in parte se ne distingue. È vero, destra e sinistra
hanno perso il loro significato in materia di orientamento politico (e dunque
l’elettorato ha almeno in parte sostituito i vecchi orientamenti con nuove
opzioni di valore) ma il tutto si è consumato tramite la - per quanto ampia - capacità
di attrazione del M5s e non ha interessato il resto dell’elettorato, fermo
dunque sui suoi orientamenti di valore ma anch’esso catturato dalla dinamica
della repulsione. Un transitorio prosciugamento del bacino elettorale di
protesta, di destra e di sinistra, e nulla di più.
Sappiamo che esiste una lettura assai diversa della stagione
nazionalpopulista che punta i riflettori sul cambiamento di orientamento
dell’elettorato e sull’emergere di una sorta di contraccolpo della
globalizzazione. Tre le aree di policy simbolo di questa diversa lettura:
immigrazione, globalizzazione commerciale, egemonia liberale. È di fronte a
queste fratture che si è sbriciolato il muro divisorio tra destra e sinistra,
non quello simbolico di Berlino caduto nel 1989 ma quello abbattuto da Trump e
da Brexit. Abbattuto il quale elettori di destra e di sinistra si sono
ritrovati insieme, proprio perché destra e sinistra erano arretrate nella
gerarchia delle fratture che strutturano i comportamenti elettorali e il
sistema politico. Una sorta di controrivoluzione illiberale, fatta di tante
cose, dal comunitarismo protezionistico al provincialismo rancoroso.
È successo quello che Salvatore Vassallo prevedeva come
un’astratta possibilità in suo saggio del lontano 2006? Il cambiamento della
struttura dello spazio politico, del numero e della salienza delle dimensioni
rilevanti in questo spazio, e il modo in cui esse sono collegate tra di loro. Lui
stesso sembra dubitarne, quanto meno nel caso italiano, dove a suo avviso è emersa
come determinante nelle elezioni del 2018 la domanda di forte redistribuzione e
di altrettanto vigorosa difesa identitaria, entrambe nettamente prevalenti sulla
dimensione europeismo vs antieuropeismo da molti considerata indicatore del
nuovo riallineamento. Anche se sono in molti a sostenere, dati alla mano, che
in giro per l’Unione e anche negli USA il voto populista cresce nelle aree
beneficiarie di consistenti politiche redistributive e in quelle nelle quali i
flussi migratori sono quantitativamente irrilevanti. Il punto è che la rivolta
contro l’universalismo dei diritti umani e il liberalismo delle frontiere
aperte (coma la definisce Stephen Holmes) non esprime un giudizio costi
benefici quanto un (pre)giudizio interpretativo e identitario.
È del tutto evidente come queste due letture tendano a
legittimare “a cascata” diverse strategie di ridefinizione della fisionomia dei
partiti vittime della stagione nazionalpopulista, sia essa letta come incidentale
agglomerazione di atteggiamenti anti-establishment che come sostituzione di una
nuova frattura dominante a quella tradizionale. Nel primo caso le ragioni
identitarie di PD e Forza Italia portano il primo a ricompattarsi su posizioni sandersiane
e la seconda a sciogliersi nel (presunto) centrodestra a trazione leghista. Nel
secondo caso si pone il tema di come costruire un’offerta politica in grado di
attrarre l’elettorato in possesso di salde ed aperte convinzioni
liberaldemocratiche, per quanto insoddisfatto delle risposte dei governi moderati
alle difficoltà generate dalla globalizzazione e dalla grande crisi del 2008. E’
certo tuttavia che questa costruzione non può seguire l’architettura
progettuale degli anni novanta, quella dell’egemonia riformista liberale. La
quarta via va costruita esplorando nuovi spazi e non celebrando una stagione
politica ormai conclusa.
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