da L'Unità di oggi

Referendum costituzionale: serve una campagna inclusiva di un partito estroverso di Stefano Ceccanti La conferenza stampa di fine anno del Presidente del Consiglio ha chiarito che il referendum sulla riforma costituzionale sarà l’appuntamento chiave del 2016. Lo aveva già sostenuto il Presidente Mattarella nel discorso alle alte cariche quando, dopo aver richiamato il referendum, aveva segnalato che, al di là del merito, l’eventuale fallimento “rischierebbe di produrre ulteriori incertezze e conflitti, oltre ad alimentare sfiducia, all'interno verso l'intera politica e all'esterno verso la capacità del Paese di superare gli ostacoli che pure si è proposto esplicitamente di rimuovere.” Non si capisce quindi perché alcuni commentatori abbiano voluto rimarcare l’assenza di quel tema, trattato esaustivamente poco giorni prima, nel discorso di fine anno del Presidente, che aveva un taglio del tutto diverso, come se il Capo dello Stato non vi attribuisse l’importanza dovuta. Sulla conferenza stampa del Presidente del Consiglio si sono concentrati dissensi per quello che appare un dato scontato e fraintendimenti sul cosiddetto “plebiscito” personale. Inizio dal dato scontato: come si fa tra un turno amministrativo parziale e un referendum costituzionale a non attribuire a questo secondo un’importanza superiore? Il tema non è nuovo. A posteriori ben pochi ricordano che le prime elezioni libere dopo la Seconda Guerra mondiale furono le amministrative parziali del marzo 1946 (seguite da quelle di novembre nelle zone dove il voto a marzo era stato impossibile), dove per la prima volta votarono le donne e, invece, si concentrano sulla scadenza del 2 giugno 1946, col referendum Monarchia-Repubblica e l’elezione dell’Assemblea Costituente. La memoria si concentra giustamente sulla scadenza più importante, anche se non era cronologicamente la prima. Il tema influenzò l’Assemblea Costituente tanto che il Presidente del Consiglio De Gasperi non poté non notare che alcune tensioni sui lavori tendevano a crearsi proprio perché i partiti, chiamati a collaborare, dovevano nel contempo affrontare le Amministrative del novembre, in cui erano rivali, e il 25 luglio 1946 non mancò di richiamare in Assemblea la gerarchia di importanza dei due passaggi: “Il pericolo è in quella inquietudine in cui si trovano i partiti perché le elezioni sono troppo vicine…Non cade il mondo se un voto di più o di meno va a questo o a quel partito”. Al di là della polemica contingente su questo aspetto non vi è dubbio che il susseguirsi di turni amministrativi parziali abbia condizionato il percorso: pare essere questa la ragione per la quale Forza Italia, dopo aver concordato il contenuto del testo di riforma, si è poi sottratta al voto negli ultimi passaggi. Ha creduto che fosse negativa elettoralmente una posizione mediana, di dissenso sul Governo e di consenso sulla riforma, che la esponeva alle critiche dei suoi potenziali partner. Al di là di queste esigenze di parte, forse non bel calcolate nelle conseguenze (non sembra che il sottrarsi sia stato un tonico per Forza Italia), resta il fatto che la riforma è stata condivisa nel merito che sarà sottoposto al referendum. Veniamo quindi al tema del cosiddetto “plebiscito personale”. Il fatto che una scadenza di questa importanza abbia conseguenze su chi più si è battuto per la sua approvazione è un dato comunque inevitabile dal punto di vista politico. Questo non fa però della scadenza referendaria un voto sulla persona del Presidente del Consiglio. E’ un voto che coinvolge l’esecutivo e il Pd che lo guida, ma non è un voto centrato su Renzi o sul Pd. Non lo è e non può essere impostato così perché i contenuti delle riforme, la fine del bicameralismo ripetitivo e la costruzione di un Senato delle autonomie, non appartengono al solo Pd. Sono anche una risposta a quegli elettori che alle politiche del 2013 votarono per i 5 Stelle per l’inconcludenza della legislatura precedente anche sulla materia istituzionale ed elettorale; sono inoltre il frutto delle già richiamata convergenza di sistema col centro-destra. La campagna dovrà quindi essere politicamente inclusiva, non chiedendo agli elettori di queste forze di riconoscersi a priori nel Pd o nel Governo o nella leadership di Renzi, ma solo in un lavoro ineludibile di aggiornamento costituzionale a beneficio di tutti. E’ nel contempo vero che una campagna siffatta, inclusiva e motivata, potrà dare ai cittadini che non si riconoscono ancora nel Pd per i limiti che il rinnovamento interno spesso conosce in vari contesti, il segno di una stagione nuova che comincia. Una campagna inclusiva, con la valorizzazione di tanti cittadini e amministratori, sarà il compimento di quel partito estroverso visto in parte nelle europee del 2014 e poi spesso offuscato.

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